venerdì 23 dicembre 2016

E' Dio e mi assomiglia Jean Paul Sartre




È Dio e mi assomiglia



La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L'ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio!


Grunewald-

Ma in altri momenti, rimane interdetta e pensa: Dio è là e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre poiché egli è Dio ed è oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio.

Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia.



Jean Paul Sartre    da “Bariona”

Natale 2016




Auguriamo,  a tutti  voi e alle persone a voi care, giorni di festa da trascorrere in serenità ed armonia.



domenica 18 dicembre 2016

CONVOCAZIONE ASSEMBLEA ANNUALE


Io sottoscritto  Ermes Fuzzi, in qualità di presidente dell'associazione "parolefatteamano" convoco in 1^seduta l'Assemblea Ordinaria per le ore 13.00 di venerdì 13 gennaio 2017 c/o palazzo Doria Pamphili - 3°piano-, piazza Orsini, Meldola per discutere e deliberare su:

ORDINE DEL GIORNO
-approvazione rendiconto economico-finanziario anno 2016

-stato delle attività in corso
-progetti 2017
-tesseramento 2017
-varie ed eventuali

per la validità dell'Assemblea occorre l'intervento di almeno la metà dei soci più uno, in difetto l'adunanza sarà rinviata in 2^ convocazione a


SABATO 14 GENNAIO 2017 alle ORE 15.00

in palazzo Doria Pamphili -3°piano-p.zza Orsini, MELDOLA



L'Assemblea è aperta anche a quanti vorranno associarsi e condividere e promuovere i valori e i principi fondanti il nostro statuto.

La quota di adesione non ha subito variazioni:

- socio ordinario euro 10,00
- socio sostenitore euro 50,00.

I soci sostenitori hanno diritto di partecipare gratuitamente ai laboratori e ai  seminari organizzati  per l'anno 2017 a Meldola


mercoledì 16 novembre 2016

LA NARRATIVA COME DIMORA - terminata la prima fase del laboratorio di narrazione autobiografica

Mille passi cominciano sempre da uno
[proverbio africano]



L'esperienza non è semplicemente quello che viviamo, ma anche il processo che nella
memoria connette i nostri vissuti e li dota di senso. Ha qualcosa di un perdersi e di un
ritrovarsi. L'esperienza compresa assomiglia a un tornare presso di sé e questa comprensione si giova della facoltà di narrare. Per chi è costretto a spostamenti, a nomadismi, scelti o imposti dalle necessità, la narrativa è una dimora appropriata e, spesso, l'unica ad essere concessa. In ogni caso aiuta a non perdersi e mantenere salde le proprie radici orientando verso un futuro possibile.
Le parole terra madre, terra patria, paese natale sono cariche di significati. Sono territori, ma anche reti di relazioni e luoghi dell'anima. Apparentemente sembrano appartenere ad un tempo perduto, al nostro essere nati in un tempo e in un luogo determinati e di abitare originariamente un certo linguaggio. Di questa origini si può avere nostalgia, ma per sviluppare la nostra esistenza siamo costretti a non coincidervi più. Quella nostalgia è il nido di tradizioni e valori per noi sacri, fortemente correlati al concetto di identità. Eppure questo rappresenta un universale umano che può scalfire le barriere tra i migranti di diverse origini, attraverso la comune esperienza dell'alterità.

Il progetto è nato su iniziativa della Società per l'affitto di Forlì in collaborazione con l'A.P.S.parolefatteamano. Hanno condotto le attività Ermes Fuzzi e Astrid Valeck.
Il laboratorio di narrazione autobiografica ha coinvolto le voci narranti tra i richiedenti asilo sul territorio e tra coloro che durante la vita hanno esperito la materia del viaggio/migrazione, portando con sé il bagaglio del proprio racconto e la generosità nel condividerlo.

lunedì 31 ottobre 2016

LA TOVAGLIA di Giovanni Pascoli.

La globalizzazione ormai sta rendendo onore ad Halloween  trascurando la tradizione che invece ci appartiene e che, a nostro avviso, dovremmo impegnarci a conservare e a tramandare. In breve  ricordiamo che la parola "Halloween" deriva da Hallowed Evening"," sera santa" e che quello che è conosciuto come "Halloween "è una tradizione presente nella maggior parte delle culture di tutto il mondo per onorare i defunti. Più diffusa in tutta Italia è la credenza che i morti tornino nelle notti tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. In Romagna , come in altre regioni, la mattina del 2 novembre le donne e i bambini si alzavano più presto del solito e si allontanavano dalla casa dopo aver rifatto i letti per bene, perché le povere anime del Purgatorio potessero entrare nel letto ancora tiepido e trovarvi riposo. Un’usanza più comune è quella di lasciare,  prima di andare a letto,  la tavola apparecchiata con i resti della cena bene in vista a disposizione delle anime dei defunti, che torneranno a farci visita.

La poesia di G. Pascoli ci riconduce al tema della famiglia, delle  tradizioni domestiche e al ricordo dei morti che ci offrono, grazie al ricordo, la loro preziosa e irrinunciabile presenza.

La tovaglia1

Le dicevano: - Bambina! 
che tu non lasci mai stesa, 
dalla sera alla mattina, 
ma porta dove l'hai presa, 
la tovaglia bianca, appena 
ch'è terminata la cena! 
Bada, che vengono i morti! 
i tristi, i pallidi morti! 
Entrano, ansimano muti. 
Ognuno è tanto mai stanco! 
E si fermano seduti 
la notte intorno a quel bianco. 
Stanno lì sino al domani, 
col capo tra le due mani, 
senza che nulla si senta, 
sotto la lampada spenta. - 
E` già grande la bambina: 
la casa regge, e lavora: 
fa il bucato e la cucina, 
fa tutto al modo d'allora. 
Pensa a tutto, ma non pensa 
a sparecchiare la mensa. 
Lascia che vengano i morti, 
i buoni, i poveri morti. 
Oh! la notte nera nera, 
di vento, d'acqua, di neve, 
lascia ch'entrino da sera, 
col loro anelito lieve; 
che alla mensa torno torno 
riposino fino a giorno, 
cercando fatti lontani 
col capo tra le due mani. 
Dalla sera alla mattina, 
cercando cose lontane, 
stanno fissi, a fronte china, 
su qualche bricia di pane, 
e volendo ricordare, 
bevono lagrime amare. 
Oh! non ricordano i morti, 
i cari, i cari suoi morti! 
- Pane, sì... pane si chiama, 
che noi spezzammo concordi: 
ricordate?... E` tela, a dama: 
ce n'era tanta: ricordi?... 
Queste?... Queste sono due, 
come le vostre e le tue, 
due nostre lagrime amare 
cadute nel ricordare! - 


1 G. Pascoli, I Canti di Castelvecchio



domenica 30 ottobre 2016

A SEM PRI MURT!

A sem pri murt!”
Siamo per i morti

Siamo per i morti; le giornate scivolano lente come i grani del rosario fra le dita delle donne. Novembre che si consuma nel grigio della campagna nebbiosa, nell’uniformità delle sue ore: monotone come interminabili litanie. Novembre con le sue corone di rosario, lunghissime noiose, sfinenti.

Ave Maria, gratia plena Dominus tecum. Io sono lì, nella cucina buia della nonna; il lume a petrolio è stato abbassato, nel focolare le braci sono state attizzate.
Benedictus fructus ventris tui. C’è qualcuno nella zona più buia della cucina che recita il rosario. E’ la nonna che, con i suoi vestiti neri, viene assorbita dall’ombra cupa dell’angolo del tagliere. Gli uomini non ci sono. Forse c’è il nonno. Infatti, è seduto sulla panca sotto la finestra che dà sui campi. Lui è mite e vecchio, guarda il buio e prega.
Pater noster, qui es in caelis. Io sono qui per caso, non abito qui e non ho una collocazione precisa. Mio cugino Riccardo tamburella con le dita sul legno del tavolo, la zia Lea gli passa accanto e, nello spazio fra un Sancta Maria, Mater Dei e l’immediato ora pro nobis peccatoribus, riesce ad allungargli uno scappellotto e a dirgli:- Arspond.
La zia Anna è seccata, importunata dal rumore alza il tono della voce declamando:- Glória Patri et Fílio. Le spose si adattano con diverso coinvolgimento a questa pratica devozionale.
La zia Anna che è più devota si dedica alla preghiera con anima fluttuante e corpo immobile; la zia Lea, che pia non è, mal sopporta quella penombra densa e quella penitenza serale, prega distraendosi con il rammendo. Anche sua figlia Isora si badalocca con qualcosa; non vedo cosa tiene in mano, ogni tanto risponde alle preghiere.
Io cosa faccio? Sono seduta vicino al tavolo con le gambette composte, la schiena eretta e ben appoggiata alla spalliera della sedia .Ogni tanto un piede mi sfugge dal piolo-prima l’uno poi l’altro- e ogni volta li ricolloco cercando di non fare rumore. Io sono andata all’asilo dalle suore ed ho imparato come si sta fermi durante la recita del Santo Rosario; non sono come loro che non sanno rimanere composti. Io rispondo alle preghiere con devozione e serietà tenendo in mano la coroncina del rosario che l’Isora mi ha prestato.Mi ha rassicurata dicendo che a lei non serve perchè e grande. Non sono proprio convinta, ma le credo. Anche la sua mamma , la zia Lea, che è più grande della zia Anna, non tiene la corona in mano. Controllo sempre più spesso, senza farmi vedere, quanto manca all’appendice della corona. Per fortuna siamo alla fine: sono annoiata, ma non oso neppure pensarlo!
Dal buio dell’angolo un tramestio richiama la mia attenzione, è la nonna che si alza per recitare le litanie. Gira la sedia e, tenendola inclinata, appoggia un ginocchio sulla seduta impagliata. Prima delle litanie c’è la Salve Regina :-Salve, Regina, Mater Misericordiae, la nonna si interrompe- Ginoin- e riprende….vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ha richiamato il nonno che è rimasto seduto sulla panca con lo sguardo sconfitto dal buio. Si alza un po’ stordito e partecipa ad alta voce. Quello delle litanie è un momento dilettevole, però non posso dirlo a nessuno, le suore ripetono sempre che, quando si prega, bisogna pensare solo a Gesù……..senza svagarsi! Io invece, mi diverto immaginando cosa vorrà dire eleison. Comincio con Kyrie eleison e, senza privarmi di nessuna implorazione, arrivo a Virgo predicanda., Janua coeli...e, un po’ alla volta, un ora pro nobis dopo l’altro, scivolo fino alla fine del rosario. Veramente non è finita, ci sono anche tutte le invocazioni per i defunti.
A sem pri murt!”Appunto, siamo per i morti, quindi c’è anche quella fila interminabile di requiem. Eterno riposo per tutti: per lei, per lui, per loro, per tutti i parenti, per i vicini di casa e per le anime purganti che non vengono pregate perché dimenticate.
A sem pri murt, si dovrà pur pregare per i morti che hanno attraversato sospiranti e gementi questa valle di lacrime? La nonna l’ha detto così bene nella Salve Regina:- A Te suspiramus, gementes, et flentes in hac lacrymarum valle. E’ brava la nonna, prega in latino per i morti di tutti. Non è andata a scuola, parla solo il dialetto e conosce solo due parole in italiano: Montevecchi Adele . Però il latino lo “dice” bene e, pur non sapendo né leggere e né scrivere, recita sempre le preghiere sfogliando un libro scritto tutto in latino. Non ha imparato a scrivere, ma a cosa le sarebbe servito? Se dovesse firmare, cosa alquanto improbabile, potrebbe sempre tracciare una croce, anche quella le verrebbe bene. La disegnerebbe con attenzione e devozione …. sulla croce è morto Gesù .
Loretta Buda


martedì 25 ottobre 2016

RACCONTARSI - a novembre il nuovo laboratorio di scrittura

Sabato 5 novembre 2016 un nuovo appuntamento con la scrittura.

LABORATORIO  autobiografico RACCONTARSI, allestito  e condotto da Ermes Fuzzi e Astrid Valeck e organizzato da La Rete Magica onlus.
Dove? A Forlì presso la sede de La Rete Magica onlus, in via Curiel n° 51

Per informazioni ed iscrizioni: 0543/033765      320/4553980


venerdì 21 ottobre 2016

ESPERIENZE DI SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA con La Rete Magica onlus di Forlì

Ieri splendida serata per raccontare e ascoltare dell'ultimo laboratorio di scrittura autobiografica che abbiamo tenuto a Forlì presso la sede de La Rete Magica la scorsa primavera. E' stata anche l'occasione per visionare il video realizzato assieme ai partecipanti e consegnare loro le antologie con i brani scritti.
Un abbraccio e un saluto a coloro che non sono potuti venire e che, pur non essendo nella foto ricordo che abbiamo scattato, sono nei nostri cuori, nel video, nell'antologia e nei nostri pensieri.
Agli interessati ricordiamo che il prossimo laboratorio di scrittura autobiografica è in programma per questo autunno, il sabato mattina come da voi richiesto. Partirà il 5 novembre 2016. E' possibile iscriversi già da adesso contattando la presidente de La rete Magica onlus di Forlì.

20 ottobre 2016, Forlì.
Da sx: Manuela, Ermes, Astrid, Lina, Claudia, Sergio, Mariella, Marna, Lieto

venerdì 14 ottobre 2016

IL RACCONTO COME DIMORA - laboratorio di narrazione autobiografica


La narrativa ha qualcosa di una dimora.
Le parole terra madre, terra patria, paese natale sono territori, ma anche reti di relazioni e luoghi dell'anima. Essere costretti a non coincidervi rappresenta un universale umano, che può scalfire le barriere tra i migranti di diverse origini, attraverso la comune esperienza dell'alterità.

Questo laboratorio, condotto da Ermes Fuzzi e Astrid Valeck - A.P.S. parolefatteamano -  è gratuito e offre la possibilità di raccontarsi attraverso una co-costruzione autobiografica, insieme ad un gruppo di migranti che vivono nel territorio.

Il calendario degli incontri è diviso a seconda della lingua veicolare: 

FRANCESE / ITALIANO
12, 19, 26, 31 ottobre e 9 novembre 2016

INGLESE / ITALIANO
10, 17, 24, 31 ottobre e 7 novembre 2016

Dove? In Via Hercolani n°5 , a Forlì. 
Per informazioni: 
Alessandro Fabbri - 3385627045 - 
email: rifugiati@societaperlaffitto.it

Se avete delle riserve pensate che:
"Tutti nella vita siamo stati "migranti", anche se immobili..."
Vi aspettiamo!

sabato 8 ottobre 2016

ESPERIENZE DI SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA con La Rete Magica onlus

“Un uomo che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell'oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull'argine da cui uscivano acqua e pesci, di mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna: - Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna? - si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?”[1]
Ci ritroveremo il 20 Ottobre 2016 alle ore 20.45 presso la sede de "La Rete Magica" a Forlì, per rileggere la "mappa disegnata" durante il laboratorio e per riascoltare le voci, le parole e le storie che hanno animato l’esperienza di scrittura autobiografica.



domenica 25 settembre 2016

SCRIVERE IN NATURA

Meldola, Az. agr. La Casaccia
24 settembre 2016

Dedicato a tutti coloro che hanno partecipato al laboratorio di scrittura autobiografica
dedicato agli amici, a chi ha amici e a coloro che sono amici


La solitudine non è una fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo. Non si sceglie la solitudine per la solitudine, ma per la comunione, non per star soli ma per incontrarsi, in modo diverso con Dio e con gli uomini.
[A. Zarri]

domenica 18 settembre 2016

MEMORIE DI LAVORO, Astrid Valeck ed Ermen Bertaccini

Chiudono questa breve rassegna Astrid ed Ermenegilda
Dall'introduzione di Astrid Valeck
[..]Nata e cresciuta in varie zone della Romagna Ermen ha vissuto tutta la vita “in bottega”. A Meldola per aiutare sua mamma nella merceria e a Gatteo mare dove ha dato vita al negozio di abbigliamento che porta il suo nome e che lei ha dedicato all'alta moda femminile. Tante le persone famose e i professionisti che si sono rivolte ai suoi consigli di modista, vestendosi esclusivamente con gli abiti che lei sceglieva appositamente per loro, nelle varie gallerie di moda e atelier. Il principio base che l'ha guidata nel lavoro è stato quello della cura del cliente, tanto che le persone tornavano a servirsi da lei, anno dopo anno. Un altro principio è stato quello del fare il “passo adeguato alla gamba”, preventivando con attenzione meticolosa acquisti e pagamenti, in modo da non avere debiti e non dover richiedere prestiti. Ha dovuto iniziare con le sue sole forze e l'ostracismo della famiglia, ma poco per volta è andata sempre crescendo. Il lavoro è stata costante e guida della sua vita. Finita la stagione al mare Ermen, anziché andare in ferie come la maggior parte dei professionisti stagionali suoi colleghi, rientrava a Meldola ad aiutare la madre nella bottega di famiglia[..]

Brano tratto dalla narrazione di Ermen Bertaccini
"UNO STRALCIO DELLA MIA VITA"

Mia mamma aprì una merceria a Meldola nel 1956. All'epoca io andavo ancora a scuola a Forlì, facevo le superiori e nel pomeriggio, per aiutare mia mamma, ne approfittavo per fare la spesa per il negozio. Ho preso il diploma di computisteria e volevo iscrivermi a Ragioneria, ma non ho continuato a studiare perché già lavoravo con lei.
Leggo tante biografie che narrano di gioventù passate nelle passeggiate o con le amiche: io quelle cose non le ho vissute. Non ho vissuto la gioventù per tanti motivi, tra cui vicissitudini familiari.
A 24 anni ho deciso di aprire un negozio al mare, a Gatteo mare per la precisione. In casa mia mi hanno detto: “Vuoi farlo?! Arrangiati!”. Non so perché ho scelto questo tipo di lavoro e il mare, forse è stato il desiderio di evadere. La mia vita a Meldola, infatti, era sempre sotto l'ala di qualcuno. Non staccavo mai. Lavoro-casa, casa-lavoro. Al mare ero solo io. Questa evasione, anche se mi condizionava, mi realizzava. Lavoravo tantissimo, dal mattino alla notte, ma ero felice.

Gli inizi della mia professione a Gatteo mare
In principio sono andata a lavorare con una signora che abitava vicino all'Istituto dove sono nata e che aveva assistito mia mamma durante la gestazione. [poi] ho cercato un affitto per provare da sola. Mi ha aiutata un certo Sergio che aveva una macelleria, là al mare. Presi il negozio sul lungomare perché dovevano costruire un porticciolo e aprire un ponte e questo avrebbe consentito una zona di transito. Nello stesso periodo una mia amica di Igea marina mise su un negozio di accessori barche. Ci doveva essere un accordo tra Milano e il comune di Gatteo: Milano costruiva il porticciolo e dopo 50 anni questo sarebbe divenuto proprietà del Comune di Gatteo. Ma Gatteo non accettò e anziché un porticciolo con un ponte, fu costruito un ponticello. Ho sempre pensato che Gatteo si meritasse una bella costruzione come il ponte dei Sospiri, non la bruttura che hanno fatto. Il turismo era iniziato negli anni '50, tutto era un po' agli inizi.
Come dicevo ho iniziato con poco, il negozio lo avevo in affitto, arredato un po' alla meglio. In seguito l'ho cambiato parecchie volte, fino ad acquistarlo ma non ho mai chiesto mutui o prestiti. Ho sempre avuto paura, ma questo credo abbia a che fare con gli eventi familiari e a come sono stata allevata. Non ho mai fatto il passo più lungo della gamba. Ho sempre fatto con quello che avevo, non ho mai chiesto neppure un fido. Dicevo sempre che i soldi che prendevo non erano i miei ma del negozio, perché l'anno dopo dovevo riaprire e fintanto che la stagione non era nel suo pieno non c'erano guadagni. A fine stagione, e cioè entro ottobre, dovevo fare gli ordini e ad aprile mi arrivavano i capi di abbigliamento della nuova collezione. Avevo le tratte da pagare: a 30, 60 o 90 giorni. Questo significava che già a maggio avevo le prime scadenze di pagamento e ancora la stagione era solo al suo inizio. Se non fossi stata accorta non avrei avuto di che pagare la merce. Sono sempre andata del mio passo e quello che guadagnavo lo reinvestivo. Certo ci sono stati periodi di crisi e periodi molto buoni.
Ho cominciato tenendo in negozio un po' di tutto, con lo spirito di casa, quello della merceria. Nel tempo mi sono specializzata in abbigliamento donna. Mi sono dedicata ai capi di abbigliamento un po' raffinati, non li teneva nessuno. Ho cominciato a frequentare Milano vende moda...Bologna fiere...e ad avere marche esclusive.

Una seicento bianco panna
Con i primi soldi guadagnati ho preso la patente e mi sono comprata un'auto: una seicento di color panna. Spesi ben 200.000 lire. Anche quella volta la risposta della mia famiglia fu che se volevo la macchina me la dovevo prendere da sola. La patente è stata una grande conquista. L'ho presa tardi. I primi tempi, infatti, per andare a lavorare a Gatteo prendevo la corriera. Tutti mi dicevano: “Non hai la patente?! Sei un'oca”.
La mia seicento l'ho poi venduta alla moglie di un signore che lavorava nella ditta che mi teneva la contabilità. Se l'è goduta così tanto! Ma quella seicento l'ho sempre nel cuore.


Ermen nel suo negozio di Gatteo mare


venerdì 16 settembre 2016

MEMORIE DI LAVORO, Ermes Fuzzi e Glauco Mercuriali

Oggi è il turno di Ermes e Glauco
Dall'introduzione di Ermes Fuzzi

[..]Con grande lucidità Glauco ci regala lo spaccato di una vita in larga parte dedicata al lavoro. Garzoni e ragazzi di bottega non si contavano negli anni '50 e già in altri ricordi sono emersi come modello educativo di un certo periodo della nostra storia locale e non solo. Le famiglie, uscite dalla drammatica esperienza della seconda guerra mondiale e spesso reduci da una infanzia segnata dai gravi lutti causati dalla prima, cominciavano ad intravedere un futuro migliore per sé e per i propri figli. La famiglia di Glauco ha radici meldolesi che emergono attraverso una curiosa ma attendibile analisi che il nostro narratore compie partendo dal soprannome di famiglia: “Piruchì”. Fin dalle prime battute si evidenzia un vero e proprio amore per la parola del dialetto che, meglio di tante altre, riesce a cogliere sfumature e aspetti difficilmente traducibili in italiano. Il romagnolo è quindi parte sostanziale e significante della trama che emerge da queste pagine in cui nulla è lasciato al caso.[..]

Brano tratto dalla narrazione di Glauco Mercuriali
"LA VITA VA VISSUTA CON UN SORRISO"
Insavunadeur”
Iniziai a lavorare che avevo 9 anni, come garzone, nel negozio di barbiere di mio zio Divo nell'estate del 1955 tra la terza e la quarta elementare. Ho fatto il garzone ininterrottamente dall'età di nove anni fino ai diciotto tutti i sabati e le domeniche. Per me le vacanze estive erano brevi e si consumavano in una settimana a Riccione da una sorella di mia nonna. Una volta nella stanza in cui tutti dormivamo eravamo in dodici. I materassi erano per terra e avevo la testa vicino ai piedi di un altro bambino, un parente che aveva la mia età. Lui sentiva l'odore dei miei piedi ed io quello dei suoi. Questo per dire come erano le mie vacanze.
Come garzone i miei compiti erano: spazzare la bottega, preparare la carta per la barba e mettere il camice ai clienti che dovevano tagliarsi i capelli. In quegli anni, soprattutto i contadini, non pagavano di volta in volta ma facevano abbonamenti che saldavano a fine mese. E infatti fino ai primi anni '60 mio zio, nel giorno di chiusura del lunedì e soprattutto d'estate, andava a fare i servizi nelle case in campagna. Poi tornava a casa con “quèl cùi scapèva” perché i contadini davano quello che potevano. Allora nel negozio si lavorava ogni sabato fino a mezzanotte e la domenica dalle sette di mattina fino alle tre del pomeriggio. Per me lavorare tutti i sabati e le domeniche durante il periodo scolastico e tutta l'estate, a parte la settimana di Riccione, era un grosso sacrificio. Me ne sono accorto nel tempo che cosa abbia rappresentato per la mia infanzia. Il sabato pomeriggio i miei amici andavano a giocare a pallone e la sera andavano al cinema. La domenica mattina andavano alla messa poi di nuovo a giocare. Io quelle cose non le ho potute fare.
Un altro compito che mi era affidato ogni tanto era quello di spalmare sui capelli la brillantina, quella dura. Mettevi il prodotto sulle mani, lo spalmavi sulla testa del cliente tirando dalla fronte e dalle tempie verso la nuca. La brillantina si staccava dalle mani e si attaccava ai capelli. Era un piastrone! Lavoravo coordinandomi con lo zio come in una piccola catena di montaggio e smontaggio. Quando stava per finire un servizio con un cliente ad un certo punto mi diceva: “Cmènza!” allora io, in un'altra poltroncina, insaponavo un cliente col sapone da barba. Appena ero pronto lo zio arrivava per il taglio ed io mi spostavo nella postazione dove lui aveva terminato e spruzzavo sul viso del cliente un'acqua di colonia diluita e spesso usavo la pietra emostatica sulle parti rasate.
Fra i miei compiti quello principale era di insaponare le barbe ed è per tale motivo che sono stato il più grande “INSAVUNADEUR” che la storia del garzonaggio del dopo guerra abbia mai avuto. Una volta lo zio mi invitò, prima del dovuto, ad insaponare un cliente. Ero giovane e la forza nelle braccia non mi mancava. Quando insaponavi, per fare più schiuma, muovevi il pennello sul mento del cliente in senso rotatorio. Quella volta insaponai più del dovuto ed al momento del cambio mio zio chiese: “Alòra cum vàla?”.
Al ché il cliente, passandosi due indici diritti sulle guance con un movimento dalle orecchie alla bocca, disse: “Questa la scàpa da per sè!”. A forza di sbattere il pennello gli avevo fatto diventare il mento completamente “informicolito”.
Un altro episodio che ricordo è quello di un sabato pomeriggio quando arrivò un autista di piazza che voleva lavarsi i capelli. Allora c'erano gli “chaffeur” conducenti d'auto con noleggio. Lo “chaffeur” doveva essere sempre a posto, ben vestito, pulito e ben pettinato. Si affacciò al negozio e disse: “Divo! Um pèzga la testa! Bsògna tum leva la testa”. Il negozio era pieno di clienti e mio zio gli rispose: “Guèrda! Adès agnèla fàz però se ta t'adèt ut la leva Glauco e a tla sug mè!” e lui di risposta “Sè sé! La va bè!”. Allora la sequenza consisteva in questo: il cliente si metteva seduto sulla poltrona e prono col viso sul lavandino. Gli appoggiavo una ciambella di gomma sulla testa per evitare che l'acqua e il sapone andassero a bagnare o irritare gli occhi. In seguito cominciavo a lavare la testa cercando di fare schiuma. Avevo diciassette anni ed ero nel pieno delle forze e sciacquavo tra una insaponata e un risciacquo. Arrivato al terzo risciacquo, dal profondo del lavandino, si sentì una voce flebile che sussurrava: “Dai dai Glauco ca ciàp e bus!”. A forza di spingerlo si era dovuto alzare dalla sedia ed era finito con la testa vicino al buco dello scarico dentro il lavandino.
Ogni sabato dalle 14.00 alla mezzanotte e la domenica mattina dalle 7.00 fino alle 13.00 e anche alle 14.00 era un continuo lavorare. Di sabato non si aveva nemmeno il tempo per andare a mangiare e chi si sacrificava era sempre mio zio. Si doveva mangiare a turno ma lo zio Divo restava in negozio ininterrottamente ed io andavo a prendere “la ligàza”, il mangiare che preparava mia zia, che si consumava tra un “taj, una berba, un'insavonadura e un bcon”. La domenica era allietata, dopo il sacrificio mattutino, dal pranzo che andavo a consumare in casa della mia zia Alba e per me era “Natale”. Mia zia preparava cappelletti, tortelli, “la mnèstra sòta”, “cunèi e poll”. Io sono stato adottato dai miei zii.
Quando iniziai a frequentare l'Istituto “Comandini” di Cesena aiutavo lo zio il sabato e la domenica sia durante il periodo scolastico sia durante il periodo estivo e mi gratificava con mille lire. Quello era il modo per riconoscermi il sacrificio che stavo facendo.
Mio zio mi stimava e mi voleva molto bene anche se non ha mai voluto insegnarmi il mestiere e mi diceva: “Ascolta Glauco. Me di fiòl annò e quant a smitarò la butèga stu vò la sarà la tua. Mo ant voi insgnèr l'amstìr parchè um spis tu guènta scèv di cliènt”. Questo per mostrarmi il suo affetto e quanto desiderasse per me un avvenire diverso da quello di barbiere.

[..]
In fin dei conti
Alla fine della storia devo dire che sono stato fortunato: primo perché sono ancora veggente, secondo perché il lavoro, soprattutto quello pubblico, mi ha dato la possibilità di crearmi una famiglia e una casa, terzo perché i garzonaggi, alla fin fine, sono stati positivi e mi hanno formato il carattere ed i sacrifici e le privazioni mi hanno aiutato a superare le difficoltà che si sono succedute nel tempo. Il mio carattere è talmente “camaleontico” che se mi siedo su un ramo non sono io che cambio colore ma è il ramo stesso che si adatta. Come dipendente pubblico ho iniziato a lavorate legando il somaro dove voleva il padrone ed ho finito legando il padrone dove voleva il somaro.



mercoledì 14 settembre 2016

MEMORIE DI LAVORO, Loris venturi e don Mauro Petrini

Oggi è il turno di Loris e don Mauro.

Dall'introduzione di Loris Venturi
La narrazione “confessione” traccia il profilo di una personalità volitiva, positiva, alla ricerca di quell’unica sinfonia cui dà piena dignità la copertina del libro dei canti della comunità cristiana meldolese. Questa narrazione è figlia di una scelta di vita e di un ministero sacerdotale nati dall’umiltà di don Mauro e dalla sua indefessa volontà di valorizzare e porre grande attenzione alle vite dei più deboli. Ha mostrato la strada ad altri fedeli ed ha compiuto atti simbolici di grande valore umano quando, per fare un esempio tra i tanti che potrei citare, ha portato sulle vette della Marmolada, o in cima alla Basilica di San Pietro, persone con gravissime problematiche di salute per le quali sembrava impossibile compiere azioni simili.

Brano tratto dalla narrazione di don Mauro Petrini
"UNA SCELTA DI VITA"

Sono don Mauro Petrini, che all’anagrafe risulto Lodovico Petrini, perché mio babbo, quando nacqui il 27 Luglio 1948, si presentò negli uffici comunali e mi dichiarò col nome LODOVICO. Così si chiamava il mio fratellino, nato nel 1943 e morto nel periodo della guerra per complicazioni in seguito a tosse convulsa. Ma al ritorno a casa le mie sorelle di 12, 13 e 15 anni dissentirono: “No! Perché quel nome? Va a finire che muore anche Lui!”. E così fui battezzato col nome di Mauro e sono sempre stato chiamato Mauro. Ma a sei anni, quando andai a scuola in prima elementare, feci la brutta scoperta: sul registro comparivo col nome di Lodovico e così l’insegnante mi chiamò all’appello. Ricordo la mia sorpresa e il divertimento dei miei compagni che allora mi prendevano in giro canzonandomi col detto: “Lodovico, sei dolce come un fico”.

Infanzia povera ma felice
Sono nato e cresciuto in una famiglia numerosa, decimo di undici figli. Ho vissuto la mia infanzia in campagna con lo stretto necessario per vivere: con la coltivazione del piccolo poderino di cui era proprietario, mio babbo ha fatto crescere con dignità tutti i suoi figli. Poi ognuno ha fatto la sua strada e si è incamminato nella vita. Eravamo una famiglia numerosa che viveva in campagna gustando la gioia di una profonda libertà: si giocava insieme tutti, anche coi vicini di casa, ai giochi più innocenti di questo mondo. Ricordo Pum Libero… Sento di aver vissuto un’infanzia molto bella e felice, anche se caratterizzata da una grande ristrettezza economica. Negli anni Cinquanta si tirava ancora la cinghia, soprattutto in una famiglia numerosa, anche se la vita in campagna ha garantito sempre un po’ di pane ed un po’ di companatico; di questo dobbiamo dire grazie al Signore. Si cresceva con l’essenziale e le cose naturali: ci si accontentava e si imparava ad accontentarsi di quel che si poteva godere. L’infanzia e la fanciullezza si sono svolte in questo modo ed hanno influito molto sulla mia formazione.

[..]
La prima scelta
Come primo ambito per il mio servizio sacerdotale chiesi al Vescovo di andare in Germania per assistere gli emigrati italiani, insieme a mio fratello sacerdote don Pier Paolo, che già da dieci anni era missionario per gli emigrati. Ho fatto questa scelta perché già durante le vacanze negli anni precedenti la mia ordinazione sacerdotale ero andato più volte nelle missioni italiane dove operava mio fratello: avevo visto il vasto campo di azione e mi attirava la possibilità di mettere a servizio di questi fratelli più bisognosi le mie giovani energie. Don Pier Paolo aveva la responsabilità della missione italiana di Offenbach, comprendente un vasto territorio popolato da circa 10.000 immigrati italiani nelle immediate vicinanze di Francoforte sul Meno. È stato il mio primo impatto con tutti i problemi che l’emigrazione italiana poneva in quegli anni anche là in Germania: i problemi dell’accoglienza in un Paese straniero, la difficoltà della comunicazione a causa della scarsa conoscenza della lingua tedesca, i problemi del lavoro, dell’abitazione, la riunificazione di tante famiglie, la difficoltà per l’inserimento dei figli nella scuola, ecc… Per il problema scolastico avevamo impostato una scuola bilingue che aiutasse pian piano i bambini, da una parte a non perdere le radici della cultura italiana e dall’altra nella comprensione della lingua e della cultura tedesca, con lo scopo di un graduale e sempre maggiore inserimento nel mondo tedesco. Per un po’ questa soluzione ha ben funzionato; poi pian piano si è superata questa fase e si è operato per un pieno inserimento nella scuola tedesca.

[..]
A mo’ di conclusione, vorrei dire che non è stato facile “confessarsi” in pubblico; tuttavia, spero che queste parole siano descrittive del mio atteggiamento fondamentalmente “positivo”: sono un prete contento della scelta fatta di donare la mia vita al Signore e ai fratelli; so di avere tanti difetti, ma confido nella benevolenza di tutti i cari meldolesi che, sicuramente, vorranno continuare a sostenere il loro parroco nel cammino che, a Dio piacendo, ancora ci sta davanti.


10 Settembre 1972. In occasione della Prima Messa di don Mauro tutta la famiglia si ritrova di nuovo unita: in prima fila, da sinistra: mamma LINA, don MAURO, don PIER PAOLO e papà DOMENICO; in seconda fila, da sinistra: GIULIA, PAOLA, GELINDO e MARIA PIA; in alto, da sinistra: ELIA, TEA, ROBERTO e MATTEO

martedì 13 settembre 2016

MEMORIE DI LAVORO, Maris Senzani Pezzi e Piero Tassinari

Dedichiamo qualche pagina di questo blog ai Biografi Volontari e ai loro narratori cominciando da Maris e Piero.
Piero Tassinari è stato maestro elementare e ora è in pensione.

Dall'introduzione di Maris Senzani Pezzi

[..]Quando penso alla scuola, in un tempo carico di distrazioni e momenti di disturbo come il presente, credo che la vera rivoluzione sia studiare. Mi piacerebbe una scuola che, fino al triennio delle superiori, non si ponesse il problema dello scopo o dell’utilità ma pensasse ad arricchire la mente, il cuore e lo spirito dei ragazzi attraverso le grandi discipline della nostra cultura, quelle che appaiono inutili e portano in altri mondi ma che fanno conoscere se stessi, come la filosofia, letteratura, l’arte, la matematica, la storia e con la psicologia, la sociologia e la logica. La possibilità di perdere un po’ di tempo, imparare a riflettere, ad ascoltare, sapersi fermare di fronte alla natura e alle proprie emozioni per poterle scoprire e riconoscere. Un tempo gratuito senza risultati concreti, utili ma che serve alla nostra crescita emotiva e relazionale. In fondo l’intelligenza è relazione, la capacità di convivere con l’alterità, andare oltre il noi stessi.[..]

Brano tratto dalla narrazione di Piero Tassinari 
"SCUOLA DI VOLO PER PRINCIPIANTI"

La prima volta non si dimentica mai. O no?
Ero alla mia prima esperienza ed è sempre tutto più difficile. Adesso mi sovviene che proprio nella scuola materna e in quella elementare in un primo tempo l’energia dei bambini, la loro carica, spaventavano anche un poco. Cioè il timore poteva essere quello di non riuscire a gestire il gruppo classe perché si potevano creare delle dinamiche e il maestro non ancora esperto nella gestione delle relazioni umane potesse fare degli errori e quindi insomma …. Il peggio del peggio che può succedere ad un insegnante è che gli possa sfuggire di mano la gestione del gruppo dei ragazzi. Se i ragazzi stessi capiscono questo …lo finiscono il maestro! Ricordo quando si incontra per la prima volta una classe e quando si inizia ad essere un insegnante. Devo dire che il cosiddetto primo giorno di scuola, così emozionante per i bambini, soprattutto per quelli che iniziano il percorso della scuola elementare, per me è sempre stato un giorno di grande emotività. Anche quando sono arrivato all’ultimo anno e avevo già la prospettiva dell’andare in pensione, sapevo quindi che quell’anno che avevo iniziato sarebbe stato l’ultimo del mio percorso di lavoro, quasi a maggior ragione, quel primo giorno di scuola, un 13 o 14 settembre, non mi fece dormire, perché ero preso dall’emozione.
[..]
Ricordo che nella Pasqua di quell’anno, scrissi una storia buffa e la proposi ai ragazzi. Era una storia di fantasia, dissi loro che, comunque, sì esistevano gli alberi che producevano invece che le pere le uova di pasqua. E rispetto alla loro sana incredulità dissi: “Se non ci credete io vi porto a vederli. Bisogna saperli riconoscere”. Ho lavorato come un matto per andare ad attaccare le uova in un albero, là, in mezzo alla campagna, che non potessero essere viste. Non solo. A questa strana caccia al tesoro che erano le uova di Pasqua, chiesi di partecipare anche alla mia collega, sempre un po’ riluttante rispetto a queste attività “alternative”. Per cui, sì, alla fine venne anche lei ma aveva un grande punto interrogativo al posto del naso. I bambini, alla vista delle uova appese, sono rimasti immobili, in silenzio, a bocca spalancata. Poi, tutti giù a ridere! Lo stesso anno mi travestii da Babbo Natale e chiesi alla collega se mi teneva i miei bambini per un po’ di tempo e se poi li accompagnava lungo un percorso che io avevo predisposto, tipo caccia al tesoro, per venirmi a cercare. Ahimè fui scoperto da una vecchietta lungo il tragitto, in quella stradella di campagna dove io avevo progettato di passare per poi andarmi a nascondere. Questa vecchietta cominciò ad urlare mescolando parole in dialetto e in italiano “Uh iè babbi natali, uh iè babbi natali, curì,curì che uh iè babbi natali!!!”.

[..]Miti e mete
Io avevo i miei miti. A parte tutti i testi che fanno parte del patrimonio culturale richiesto all’insegnante per potersi proporre come tale, si studiano pedagogisti, psicologi, poi c’erano dei miti che per me erano gli archetipi dell’insegnante. Uno in particolare non lo potrò mai dimenticare perché io cercavo di imitare il suo modo di insegnare. Non so se questo signore sia ancora fra noi. Se esiste il paradiso lui ha un posto d’onore. Questo signore è stato un maestro elementare e uno scrittore, Mario Lodi, che ha scritto tanto, tanti testi che io consideravo il mio Vangelo pedagogico. Erano dei romanzi dedicati alla scuola e anche ai bambini. Uno di questi è “C’è speranza se questo accadde a Vho (Vho di Piadena)”, oppure “Il paese sbagliato”, poi il famoso “Cipì” , scritto per i suoi scolari, che ha venduto non so mai quante copie in tutte le scuole d’Italia. Un libro che raccontava della sua esperienza da quando era bambino fino alle vicende della 2° guerra mondiale, del fascismo, libro che ho continuato a leggere ai ragazzi fino all’ultimo ciclo era il “Il corvo”. Comunque cercavo in tutti i modi di fare scuola alla maniera di Mario Lodi. Ora mi ritorna alla mente anche la “Scuola di Barbiana”, Don Milani, grande personaggio. Quelli erano i miei eroi. E sulla falsa riga del loro modo di organizzare l’istituzione educativa io cercavo di muovermi. E devo dire la verità. Fino alla fine, sono passate le riforme sulla mia testa, va bene, sono cambiati i modelli organizzativi ma io sono rimasto fedele a quel modello.

Il maestro Piero con i suoi alunni

lunedì 12 settembre 2016

Altre foto del 10 settembre

Ancora un po' di foto della manifestazione di sabato 10 settembre 2016 in sala Nella Versari dove è stata presentato il terzo volume sulle memorie di lavoro.

LE FOTO SONO DI ZINO TAMBURRINO