Dall'introduzione di Ermes Fuzzi
[..]Con
grande lucidità Glauco ci regala lo spaccato di una vita in larga
parte dedicata al lavoro. Garzoni e ragazzi di bottega non si
contavano negli anni '50 e già in altri ricordi sono emersi come
modello educativo di un certo periodo della nostra storia locale e
non solo. Le famiglie, uscite dalla drammatica esperienza della
seconda guerra mondiale e spesso reduci da una infanzia segnata dai
gravi lutti causati dalla prima, cominciavano ad intravedere un
futuro migliore per sé e per i propri figli. La famiglia di Glauco
ha radici meldolesi che emergono attraverso una curiosa ma
attendibile analisi che il nostro narratore compie partendo dal
soprannome di famiglia: “Piruchì”. Fin dalle prime battute si
evidenzia un vero e proprio amore per la parola del dialetto che,
meglio di tante altre, riesce a cogliere sfumature e aspetti
difficilmente traducibili in italiano. Il romagnolo è quindi parte
sostanziale e significante della trama che emerge da queste pagine in
cui nulla è lasciato al caso.[..]
Brano tratto dalla narrazione di Glauco Mercuriali
"LA VITA VA VISSUTA CON UN SORRISO"
“Insavunadeur”
Iniziai
a lavorare che avevo 9 anni, come garzone, nel negozio di barbiere di
mio zio Divo nell'estate del 1955 tra la terza e la quarta
elementare. Ho fatto il garzone ininterrottamente dall'età di nove
anni fino ai diciotto tutti i sabati e le domeniche. Per me le
vacanze estive erano brevi e si consumavano in una settimana a
Riccione da una sorella di mia nonna. Una volta nella stanza in cui
tutti dormivamo eravamo in dodici. I materassi erano per terra e
avevo la testa vicino ai piedi di un altro bambino, un parente che
aveva la mia età. Lui sentiva l'odore dei miei piedi ed io quello
dei suoi. Questo per dire come erano le mie vacanze.
Come
garzone i miei compiti erano: spazzare la bottega, preparare la carta
per la barba e mettere il camice ai clienti che dovevano tagliarsi i
capelli. In quegli anni, soprattutto i contadini, non pagavano di
volta in volta ma facevano abbonamenti che saldavano a fine mese. E
infatti fino ai primi anni '60
mio zio, nel giorno di chiusura del lunedì e soprattutto d'estate,
andava a fare i servizi nelle case in campagna. Poi tornava a casa
con “quèl cùi scapèva” perché i contadini davano quello che
potevano. Allora nel negozio si lavorava ogni sabato
fino a mezzanotte e la domenica dalle sette di mattina fino alle tre
del pomeriggio. Per me lavorare tutti i sabati e le domeniche durante
il periodo scolastico e tutta l'estate, a parte la settimana di
Riccione, era un grosso sacrificio. Me ne sono accorto nel tempo che
cosa abbia rappresentato per la mia infanzia. Il sabato pomeriggio i
miei amici andavano a giocare a pallone e la sera andavano al cinema.
La domenica mattina andavano alla messa poi di nuovo a giocare. Io
quelle cose non le ho potute fare.
Un
altro compito che mi era affidato ogni tanto era quello di spalmare
sui capelli la brillantina, quella dura. Mettevi il prodotto sulle
mani, lo spalmavi sulla testa del cliente tirando dalla fronte e
dalle tempie verso la nuca. La brillantina si staccava dalle mani e
si attaccava ai capelli. Era un piastrone! Lavoravo coordinandomi con
lo zio come in una piccola catena di montaggio e smontaggio. Quando
stava per finire un servizio con un cliente ad un certo punto mi
diceva: “Cmènza!” allora io, in un'altra poltroncina,
insaponavo un cliente col sapone da barba. Appena ero pronto lo zio
arrivava per il taglio ed io mi spostavo nella postazione dove lui
aveva terminato e spruzzavo sul viso del cliente un'acqua di colonia
diluita e spesso usavo la pietra emostatica sulle parti rasate.
Fra
i miei compiti quello principale era di insaponare le barbe ed è per
tale motivo che sono stato il più grande “INSAVUNADEUR” che la
storia del garzonaggio del dopo guerra abbia mai avuto. Una volta lo
zio mi invitò, prima del dovuto, ad insaponare un cliente. Ero
giovane e la forza nelle braccia non mi mancava. Quando insaponavi,
per fare più schiuma, muovevi il pennello sul mento del cliente in
senso rotatorio. Quella volta insaponai più del dovuto ed al momento
del cambio mio zio chiese: “Alòra cum vàla?”.
Al
ché il cliente, passandosi due indici diritti sulle guance con un
movimento dalle orecchie alla bocca, disse: “Questa la scàpa da
per sè!”. A forza di sbattere il pennello gli avevo fatto
diventare il mento completamente “informicolito”.
Un
altro episodio che ricordo è quello di un sabato pomeriggio quando
arrivò un autista di piazza che voleva lavarsi i capelli. Allora
c'erano gli “chaffeur” conducenti d'auto con noleggio. Lo
“chaffeur” doveva essere sempre a posto, ben vestito, pulito e
ben pettinato. Si affacciò al negozio e disse: “Divo! Um pèzga
la testa! Bsògna tum leva la testa”. Il negozio era pieno di
clienti e mio zio gli rispose: “Guèrda! Adès agnèla fàz però
se ta t'adèt ut la leva Glauco e a tla sug mè!” e lui di
risposta “Sè sé! La va bè!”. Allora la sequenza
consisteva in questo: il cliente si metteva seduto sulla poltrona e
prono col viso sul lavandino. Gli appoggiavo una ciambella di gomma
sulla testa per evitare che l'acqua e il sapone andassero a bagnare o
irritare gli occhi. In seguito cominciavo a lavare la testa cercando
di fare schiuma. Avevo diciassette anni ed ero nel pieno delle forze
e sciacquavo tra una insaponata e un risciacquo. Arrivato al terzo
risciacquo, dal profondo del lavandino, si sentì una voce flebile
che sussurrava: “Dai dai Glauco ca ciàp e bus!”. A forza
di spingerlo si era dovuto alzare dalla sedia ed era finito con la
testa vicino al buco dello scarico dentro il lavandino.
Ogni sabato dalle 14.00 alla mezzanotte e
la domenica mattina dalle 7.00 fino alle 13.00 e anche alle 14.00 era
un continuo lavorare. Di sabato non si aveva nemmeno il tempo per
andare a mangiare e chi si sacrificava era sempre mio zio. Si doveva
mangiare a turno ma lo zio Divo restava in negozio ininterrottamente
ed io andavo a prendere “la ligàza”, il mangiare che preparava
mia zia, che si consumava tra un “taj, una berba, un'insavonadura e
un bcon”. La domenica era allietata, dopo il sacrificio mattutino,
dal pranzo che andavo a consumare in casa della mia zia Alba e per me
era “Natale”. Mia zia preparava cappelletti, tortelli, “la
mnèstra sòta”, “cunèi e poll”. Io sono stato adottato dai
miei zii.
Quando iniziai a frequentare l'Istituto
“Comandini” di Cesena aiutavo lo zio il sabato e la domenica sia
durante il periodo scolastico sia durante il periodo estivo e mi
gratificava con mille lire. Quello era il modo per riconoscermi il
sacrificio che stavo facendo.
Mio
zio mi stimava e mi voleva molto bene anche se non ha mai voluto
insegnarmi il mestiere e mi diceva: “Ascolta Glauco. Me di fiòl
annò e quant a smitarò la butèga stu vò la sarà la tua. Mo ant
voi insgnèr l'amstìr parchè um spis tu guènta scèv di cliènt”.
Questo per mostrarmi il suo affetto e quanto desiderasse per me un
avvenire diverso da quello di barbiere.
[..]
In
fin dei conti
Alla
fine della storia devo dire che sono stato fortunato: primo perché
sono ancora veggente, secondo perché il lavoro, soprattutto quello
pubblico, mi ha dato la possibilità di crearmi una famiglia e una
casa, terzo perché i garzonaggi, alla fin fine, sono stati positivi
e mi hanno formato il carattere ed i sacrifici e le privazioni mi
hanno aiutato a superare le difficoltà che si sono succedute nel
tempo. Il mio carattere è talmente “camaleontico” che se mi
siedo su un ramo non sono io che cambio colore ma è il ramo stesso
che si adatta. Come dipendente pubblico ho iniziato a lavorate
legando il somaro dove voleva il padrone ed ho finito legando il
padrone dove voleva il somaro.
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