venerdì 16 settembre 2016

MEMORIE DI LAVORO, Ermes Fuzzi e Glauco Mercuriali

Oggi è il turno di Ermes e Glauco
Dall'introduzione di Ermes Fuzzi

[..]Con grande lucidità Glauco ci regala lo spaccato di una vita in larga parte dedicata al lavoro. Garzoni e ragazzi di bottega non si contavano negli anni '50 e già in altri ricordi sono emersi come modello educativo di un certo periodo della nostra storia locale e non solo. Le famiglie, uscite dalla drammatica esperienza della seconda guerra mondiale e spesso reduci da una infanzia segnata dai gravi lutti causati dalla prima, cominciavano ad intravedere un futuro migliore per sé e per i propri figli. La famiglia di Glauco ha radici meldolesi che emergono attraverso una curiosa ma attendibile analisi che il nostro narratore compie partendo dal soprannome di famiglia: “Piruchì”. Fin dalle prime battute si evidenzia un vero e proprio amore per la parola del dialetto che, meglio di tante altre, riesce a cogliere sfumature e aspetti difficilmente traducibili in italiano. Il romagnolo è quindi parte sostanziale e significante della trama che emerge da queste pagine in cui nulla è lasciato al caso.[..]

Brano tratto dalla narrazione di Glauco Mercuriali
"LA VITA VA VISSUTA CON UN SORRISO"
Insavunadeur”
Iniziai a lavorare che avevo 9 anni, come garzone, nel negozio di barbiere di mio zio Divo nell'estate del 1955 tra la terza e la quarta elementare. Ho fatto il garzone ininterrottamente dall'età di nove anni fino ai diciotto tutti i sabati e le domeniche. Per me le vacanze estive erano brevi e si consumavano in una settimana a Riccione da una sorella di mia nonna. Una volta nella stanza in cui tutti dormivamo eravamo in dodici. I materassi erano per terra e avevo la testa vicino ai piedi di un altro bambino, un parente che aveva la mia età. Lui sentiva l'odore dei miei piedi ed io quello dei suoi. Questo per dire come erano le mie vacanze.
Come garzone i miei compiti erano: spazzare la bottega, preparare la carta per la barba e mettere il camice ai clienti che dovevano tagliarsi i capelli. In quegli anni, soprattutto i contadini, non pagavano di volta in volta ma facevano abbonamenti che saldavano a fine mese. E infatti fino ai primi anni '60 mio zio, nel giorno di chiusura del lunedì e soprattutto d'estate, andava a fare i servizi nelle case in campagna. Poi tornava a casa con “quèl cùi scapèva” perché i contadini davano quello che potevano. Allora nel negozio si lavorava ogni sabato fino a mezzanotte e la domenica dalle sette di mattina fino alle tre del pomeriggio. Per me lavorare tutti i sabati e le domeniche durante il periodo scolastico e tutta l'estate, a parte la settimana di Riccione, era un grosso sacrificio. Me ne sono accorto nel tempo che cosa abbia rappresentato per la mia infanzia. Il sabato pomeriggio i miei amici andavano a giocare a pallone e la sera andavano al cinema. La domenica mattina andavano alla messa poi di nuovo a giocare. Io quelle cose non le ho potute fare.
Un altro compito che mi era affidato ogni tanto era quello di spalmare sui capelli la brillantina, quella dura. Mettevi il prodotto sulle mani, lo spalmavi sulla testa del cliente tirando dalla fronte e dalle tempie verso la nuca. La brillantina si staccava dalle mani e si attaccava ai capelli. Era un piastrone! Lavoravo coordinandomi con lo zio come in una piccola catena di montaggio e smontaggio. Quando stava per finire un servizio con un cliente ad un certo punto mi diceva: “Cmènza!” allora io, in un'altra poltroncina, insaponavo un cliente col sapone da barba. Appena ero pronto lo zio arrivava per il taglio ed io mi spostavo nella postazione dove lui aveva terminato e spruzzavo sul viso del cliente un'acqua di colonia diluita e spesso usavo la pietra emostatica sulle parti rasate.
Fra i miei compiti quello principale era di insaponare le barbe ed è per tale motivo che sono stato il più grande “INSAVUNADEUR” che la storia del garzonaggio del dopo guerra abbia mai avuto. Una volta lo zio mi invitò, prima del dovuto, ad insaponare un cliente. Ero giovane e la forza nelle braccia non mi mancava. Quando insaponavi, per fare più schiuma, muovevi il pennello sul mento del cliente in senso rotatorio. Quella volta insaponai più del dovuto ed al momento del cambio mio zio chiese: “Alòra cum vàla?”.
Al ché il cliente, passandosi due indici diritti sulle guance con un movimento dalle orecchie alla bocca, disse: “Questa la scàpa da per sè!”. A forza di sbattere il pennello gli avevo fatto diventare il mento completamente “informicolito”.
Un altro episodio che ricordo è quello di un sabato pomeriggio quando arrivò un autista di piazza che voleva lavarsi i capelli. Allora c'erano gli “chaffeur” conducenti d'auto con noleggio. Lo “chaffeur” doveva essere sempre a posto, ben vestito, pulito e ben pettinato. Si affacciò al negozio e disse: “Divo! Um pèzga la testa! Bsògna tum leva la testa”. Il negozio era pieno di clienti e mio zio gli rispose: “Guèrda! Adès agnèla fàz però se ta t'adèt ut la leva Glauco e a tla sug mè!” e lui di risposta “Sè sé! La va bè!”. Allora la sequenza consisteva in questo: il cliente si metteva seduto sulla poltrona e prono col viso sul lavandino. Gli appoggiavo una ciambella di gomma sulla testa per evitare che l'acqua e il sapone andassero a bagnare o irritare gli occhi. In seguito cominciavo a lavare la testa cercando di fare schiuma. Avevo diciassette anni ed ero nel pieno delle forze e sciacquavo tra una insaponata e un risciacquo. Arrivato al terzo risciacquo, dal profondo del lavandino, si sentì una voce flebile che sussurrava: “Dai dai Glauco ca ciàp e bus!”. A forza di spingerlo si era dovuto alzare dalla sedia ed era finito con la testa vicino al buco dello scarico dentro il lavandino.
Ogni sabato dalle 14.00 alla mezzanotte e la domenica mattina dalle 7.00 fino alle 13.00 e anche alle 14.00 era un continuo lavorare. Di sabato non si aveva nemmeno il tempo per andare a mangiare e chi si sacrificava era sempre mio zio. Si doveva mangiare a turno ma lo zio Divo restava in negozio ininterrottamente ed io andavo a prendere “la ligàza”, il mangiare che preparava mia zia, che si consumava tra un “taj, una berba, un'insavonadura e un bcon”. La domenica era allietata, dopo il sacrificio mattutino, dal pranzo che andavo a consumare in casa della mia zia Alba e per me era “Natale”. Mia zia preparava cappelletti, tortelli, “la mnèstra sòta”, “cunèi e poll”. Io sono stato adottato dai miei zii.
Quando iniziai a frequentare l'Istituto “Comandini” di Cesena aiutavo lo zio il sabato e la domenica sia durante il periodo scolastico sia durante il periodo estivo e mi gratificava con mille lire. Quello era il modo per riconoscermi il sacrificio che stavo facendo.
Mio zio mi stimava e mi voleva molto bene anche se non ha mai voluto insegnarmi il mestiere e mi diceva: “Ascolta Glauco. Me di fiòl annò e quant a smitarò la butèga stu vò la sarà la tua. Mo ant voi insgnèr l'amstìr parchè um spis tu guènta scèv di cliènt”. Questo per mostrarmi il suo affetto e quanto desiderasse per me un avvenire diverso da quello di barbiere.

[..]
In fin dei conti
Alla fine della storia devo dire che sono stato fortunato: primo perché sono ancora veggente, secondo perché il lavoro, soprattutto quello pubblico, mi ha dato la possibilità di crearmi una famiglia e una casa, terzo perché i garzonaggi, alla fin fine, sono stati positivi e mi hanno formato il carattere ed i sacrifici e le privazioni mi hanno aiutato a superare le difficoltà che si sono succedute nel tempo. Il mio carattere è talmente “camaleontico” che se mi siedo su un ramo non sono io che cambio colore ma è il ramo stesso che si adatta. Come dipendente pubblico ho iniziato a lavorate legando il somaro dove voleva il padrone ed ho finito legando il padrone dove voleva il somaro.



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