Invito alla lettura a cura di Ermes Fuzzi
Neil Young, Il sogno di un hippie, Feltrinelli, Milano, 2015
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Invito alla lettura a cura di Ermes Fuzzi
La
prima edizione dell'89 ci porta a un Guccini, alle soglie dei
cinquanta anni, con il prepotente bisogno di tornare alla propria
infanzia mitica tra personaggi, avvenimenti, luoghi d'origine. Il
paese di Pàvana
e il mulino di Checco, il fiume e le montagne d'Appennino. Con i ricordi personali si fondono quelli tramandati dai
“grandi” lungo il primo decennio di vita, e poco più, di
Francesco tra il '40 e il '50. Figure mitiche riportate in vita dalla
scrittura nelle parole, nelle pronunce e nelle cadenze con l'aiuto di
un sistema di trascrizione semplificato tratto dalla “Rivista
italiana di Dialettologia”. Il dialetto ha una propria coloritura,
una linea espressiva e una carica attraverso cui è appassionante
scoprire un mondo ormai perduto. Una appendice aiuta il lettore
attraverso [...]un esame divertito di alcune parole che possono
suonare misteriose a orecchie a volte toscane a volte
padane.[...](pag.167). Guccini,
allenato a “lavorare” con le parole, pone il proprio impegno nel
contestualizzare termini ed espressioni come “l'unto creapopoli”,
i buchi ragnatelosi contenenti tesori come due bossoli 7,62, le
galline che dormono nel gallinaio, il cinema di Gigi dove si vedono i
filmi. Descrizioni di grande potere evocativo sono anche quelle dei
negozi e dei personaggi: il mac'lai-io che sta come re in trono
dietro al suo banco di marmo che trancia coltellate o pestonate da
far tremare tutto. Oppure la bottega di Ziapìna dove le nari ti si
riempiono di mille odori sapori. E ancora la farmacia con l'Ossido di
Zingo e la Magnesia San Pellegrino e la Magnesia Bisurata. Un mondo
compreso tra le montagne e il ponte sul Limentra dove sembra finire
tutto, le colonne d'Ercole del ricordo infantile, oltre il quale
[...]c'è solo la catena montuosa che circonda la terra e
il fiume Oceano che la abbraccia tutta.[...](pag.33).
Appaiono i volti cari o indelebili come quello di Nonna Maria dalla
faccia da tedesca crucca, bionda, occhi azzurri, bianca, opima.
Quella del Parroco Neumann, un vecchio sorridente e saggio, con
occhiali a cerchio, calvo se si toglie una striscia di capelli
bianchi che gli fanno da corona e scendono a scopetta ai lati delle
orecchie. Nonna Amabìlia che è grintosa e dolce, fragilmente
robusta, ma forse solo in apparenza, coi capelli corti sempre dentro
ad una reticella. Nonno Pietro [...]Lorgnètte a mezzo naso
e gilé sulla camicia senza solino, d'estate; d'inverno, quello di
lana bianca di pèggora, fatto a mano. Se il fratello Merigo andavo
poco in paese, lui era come la sorella Teresa:mai.[...](Pag.160).
E Poldo che passa ore a parlare ai morti del cimitero per raccontar
loro le novità “del mondo di qua”. Le origini passano attraverso
i racconti della costruzione del mulino e dei mitici sforzi per
deviare l'acqua del fiume nel “botaccio”. Il viaggio “fin dalle
terre di Francia” delle macine. La costruzione delle pale e degli
ingranaggi di legno, la regolazione del flusso d'acqua, meccanismi
apparentemente semplici ma altamente ingegnosi e decisivi per le
sorti di molte famiglie. Poi ancora i danni e le disgrazie occorse a
cose, uomini e animali a causa delle piene dopo lunghi giorni di
pioggia. Si alternano frequenti richiami agli oggetti tra cui un
posto di prim'ordine spetta alla “madia” dove si lascia il pane a
lievitare e sotto, nel cassettone con i pomelli d'ottone lucido, un
mare di oggetti e attrezzi che restano lì per anni lasciando [...]
un odore unico che tutte quelle cose avevano, un odore
implacabile […] (pag.43) Nel
tentativo di ricostruire quel mondo perso e sognato torna “il posto
più magico che ci sia in tutta la casa, la libreria”. Da lì parte
il mondo del piccolo Francesco che si mette davanti ai libri “come
ci si mette davanti a qualcosa di bono da mangiare”. In questo
intricato ordito di fili si scorge l'amore per le proprie origini che
hanno riportato a Pavana l'autore di questo piacevolissimo tuffo in
[...]quel mondo che non c'è più e che non si
ritroverà[...] (pag.166)
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Invito alla lettura a cura di Astrid Valeck
Neil Young, Il sogno di un hippie, Feltrinelli, Milano, 2015
La
storia, solo apparentemente priva di canovaccio, è l'autobiografia
di un uomo che ha attraversato la storia americana dal dopo guerra ad
oggi. Se il filo conduttore del racconto è rappresentato dalla
musica ciò non distoglie dalle vicissitudini umane, personali e
familiari, che hanno cadenzato le epoche della vita di questo
fecondissimo artista. Alcuni nodi si presentano ciclicamente nella
vita di Young e riguardano i grandi temi della vita: la malattia,
l'amore, la famiglia, l'amicizia, il sogno. Nel sogno la trasparenza
e l'unicità del pensiero individuale si fondono con quello di
un'epoca e di intere generazioni hippie americane che negli anni '60
vissero le ebbrezze dell'amore libero e degli stati psichedelici
indotti dalle droghe. Young è un testimone che parla esplicitamente
di quei momenti e di come fosse normale fare uso di sostanze
stupefacenti nel mondo della musica e dello spettacolo per cercare
ispirazioni artistiche, per abbassare freni inibitori e socializzare
la creatività. Tutti i successi e i riconoscimenti di tante parti
del mondo non hanno però cancellato certi ricordi di una infanzia
mitica passata in Canada insieme alla famiglia. Particolarmente
intenso e sviluppato in varie parti del libro è il rapporto col
padre, scrittore di professione. “[...] la macchina da scrivere
di mio padre era nell'attico al piano di sopra. Lì nessuno poteva
salire. Ovviamente io andavo a vedere perché non si poteva. Papà
riusciva sempre a smettere di scrivere per parlarmi. Mi chiamava
Windy, Ventoso. 'Cosa hai in mente , Windy?'[...] Scrivi tutti i
giorni e sarai sorpreso da ciò che verrà fuori[...]”. Frasi
indelebili di una figura amatissima che perde la capacità di
scrivere e relazionarsi quando insorgono disturbi causati da una
grave malattia degenerativa della memoria. “[...]Una volta, anni
dopo, quando ebbi bisogno di un suo saggio consiglio, gli raccontai
di un mio grosso problema e lui dalla sua sedia continuò a fissare
il vuoto. Compresi che non riusciva a rispondermi. C'era e non c'era.
Fu allora che la vidi per la prima volta, Demenza, Alzheimer,
chiamatela come vi pare. É solo un nome. Era andato. I suoi occhi, i
capelli erano diventati grigi, tutto in una volta. Non mi rispose
mai[...]”. Scrivere diventa un biglietto per una vita più
rilassata
e contemporaneamente uno stimolo per cominciare un altro libro (vedi
anche Special delux
del 2015 edito da Feltrinelli). Un modo per stare
giù dal palco soffermarsi
sui bilanci della vita perché, dice Young, il
passato è un gran bel posto e
in un'altra parte afferma che scrivere è molto pratico, si spende
poco ed è un gran modo di passare il tempo.
La
vita e la musica sono indissolubilmente connesse e si sviluppano
entrambe sul filo di avventure straordinarie che portano ad
importanti riconoscimenti di livello mondiale e a
collaborazioni artistiche con i più grandi nomi della musica. Da
queste collaborazioni nascono diversi concerti per la raccolta di
fondi utili alla realizzazione di scuole con attrezzature specifiche
dedicate a bambini disabili. Due dei tre figli di Young nascono con
cerebro lesioni e il suo impegno come artista e come padre non
conosce mai battute di arresto. Egli stesso ha conosciuto malattie
importanti di cui narra e che si presentano fin dall'infanzia:
poliomielite, attacchi epilettici, un aneurisma cerebrale.
[...]nessuna di queste cose mi ha cambiato più di tanto, anche se
è difficile esserne certi. Questi eventi fanno parte della mia vita.
Fanno di me ciò che sono. Sono grato per ciò che mi è accaduto.
Fanno paura.[...]. Anche sulla
religione non manca di esprimersi in varie parti del libro
definendosi un pagano che riconosce la presenza di un grande spirito in
ogni manifestazione della natura. Basta osservare l'orizzonte, il
mare o camminare in una foresta per sentirne la presenza. Young fa
parte a pieno titolo di quella che egli stesso definisce
controcultura degli hippie, degli artisti e degli indiani. Non
mancano momenti di coinvolgimento nelle stagioni della contestazione
degli anni '70. Attraverso le parole e la musica si esplicita il
legame indissolubile con la generazione hippie di cui fa parte.
Contestazioni contro la politica della guerra e contro le violenze
della polizia e le uccisioni durante le manifestazioni studentesche.
Ma anche, più recentemente, per i disastri ecologici causati dalle
multinazionali del petrolio nel Golfo del Messico cercando di
diffondere attraverso, i grandi concerti, le verità contro
l'insabbiamento dell'informazione sull'inquinamento provocato dalle
perforazioni indiscriminate. Un uomo da scoprire attraverso questo
libro che riesce a soddisfare le curiosità dei musicofili ma anche
di coloro che sono amanti e cultori della scrittura autobiografica.
[…] Quando la musica è la tua vita, c'è una chiave che
ti conduce al cuore di tutto (…) accetto la natura estrema dei miei
doni e dei miei fardelli, dei miei talenti e dei messaggi, i miei
figli con le loro unicità, mia moglie con la sua bellezza e il suo
infinito rinnovamento. Ti Suono troppo cosmico? Non credo, amico mio.
Non dubitare della mia sincerità, perché è quella che ci ha
condotto qui insieme, adesso.[...]
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Invito alla lettura a cura di Ermes Fuzzi
Francesco
Guccini, Cròniche epafàniche,
U.E. Feltrinelli, Milano 1989
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Invito alla lettura a cura di Astrid Valeck
Astrid Valeck-Ermes Fuzzi, L'eredità di Natalia, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008
Romanzo per una pedagogia della memoria.
Ha ricevuto numerosi premi letterari
Scrivo queste righe su invito di una carissima amica, Loretta Buda e del libro che ha recensito pochi giorni orsono, perché le vicende della Flem, in parte, rispecchiano il mio sentire per le vicende storiche della mia famiglia. E perché anche io ho avvertito l'esigenza di dare forma a questo sentire attraverso la scrittura.
Alcuni anni fa, esattamente nel 2008, Ermes Fuzzi ed io abbiamo scritto un romanzo.
Una scrittura a quattro mani non è affare da poco, ma è una delle esperienze più entusiasmanti che io ricordi. Sia Ermes che io avevamo un retroterra da conoscere e da narrare, e da lasciare in dono ai nostri figli. Qualcosa che era apparso improvvisamente nelle nostre vite quando eravamo già grandi. È una grande opportunità, per uno scrittore, poter raccontare -in prima persona-come è nato il romanzo che ha scritto e cosa lo ha guidato e supportato.
Oggi potrei farlo a ritroso, con la ricchezza di quanto è avvenuto in questi otto anni. Però so di avere da conto, in fitti quaderni e lettere, l'evoluzione di questa nascita.
È così che ho trovato una lettera che il 22 settembre 2007 spedii al circolo di scrittura autobiografica a distanza di Anghiari. Il romanzo sarebbe stato pubblicato solo alla fine di quell'anno, uscendo tra i titoli de Il Ponte Vecchio a gennaio 2008.
Una scrittura in corso d'opera, quasi una pagina di diario, per raccontare l'evoluzione di una narrazione che stava prendendo la forma di un romanzo.
È da quella lettera che prendo lo stralcio che qui accludo, per ricordare il passato da cui provengo e che fare memoria, nel giorno della memoria, e in qualsiasi giorno dell'anno, è un atto di testimonianza che aiuta tutti a non dimenticare, soprattutto quando i testimoni storici rimangono in pochi. La mia storia, la storia di Ermes, non è una storia vissuta in prima persona, ma noi siamo i testimoni dei testimoni e il nostro compito è quello di passare il testimone.
“L'idea iniziale era quella di fare un film.
Volevo scrivere e realizzare un film (e arriverò, prima o poi, a farlo) e invece ho scritto un romanzo.
Un romanzo al posto di un film.
Come sarà mai che una sceneggiatura abbia così radicalmente cambiato forma, si fa presto a dirlo.
Mi sono persa, volutamente persa tra le pieghe dei personaggi e le evocazioni dei luoghi.
La mia mano voleva andare in una direzione, il mio pensiero interiore in un altra. E ho dovuto prestargli ascolto.
Ho raccontato ciò che i miei occhi interiori percepivano e traducevano in immagini.
Ho passato anni a riempirmi di letture fino a saturare ogni mia percezione, c'è stato spazio per ogni emozione, ogni dettaglio, ogni biografia, anche ogni fandonia. Il malessere e la sofferenza che ho provato erano il sintomo di un lavorio interiore che accostava paradossi e che entrava in conflitto con se stesso, perché il quadro “non tornava”. La cosiddetta quadratura del cerchio non era possibile.
La sensazione era quella di limarsi il cervello, ma le forma non potevano combaciare, restavano distinte e ogni volta che provavano ad avvicinarsi provocavano scintille.
Si dice che essere creativi significa trovare soluzioni nuove a problemi vecchi.
A certi silenzi ostinati, le fonti, la ricerca, gli studi dei differenti autori possono solo fornire un'idea sfocata. Scrivere questo romanzo è la risposta creativa ad un grande vuoto “pieno”. Rappresenta un modo per cambiare punto di osservazione e saper cogliere la ricchezza che si nasconde dietro certi silenzi e dentro spazi che si presume siano vuoti, ma in realtà non lo sono ed è proprio focalizzando l'attenzione su di essi che il quadro si illumina e può essere visto.
A distanza di tempo, mentre leggevo un libro ho trovato questa citazione che sintetizza bene il mio pensiero: “A un certo stadio del processo creativo l'opera, che si tratti di un quadro o di una poesia o di una teoria scientifica, assume una vita propria e trasmette le proprie esigenze al suo creatore. Essa si separa da lui e fa appello al materiale che giace nel suo subcosciente. Il creatore deve quindi sapere quando è il caso di smettere di imprimere una direzione al proprio lavoro e lasciarsi invece guidare da lui. Egli deve in breve sapere quando è probabile, che la sua opera sia più saggia di lui”. (Chiedo scusa, ma non ho tenuto nota dell'autore e del libro).
La mia non è stata una scrittura organizzata sin da subito, anzi è vero il contrario. Le pagine scaturivano dalla penna sulla scia di una spinta interiore che mi pareva sconclusionata. Tante immagini diverse ed emozionalmente intense.
Pagine scaturite, spesso, con estrema fatica, quasi che ciò che avevo da raccontare premesse per uscire, ma nel contempo non potesse farlo. Normalmente, rimossi ostacoli che si rivelavano leggeri come un velo ma all'apparenza pesanti come un muro, le parole correvano fluide e inarrestabili sulla carta.
Ci sono ancora delle pagine che vorrebbero esprimere più di quanto dicono, ma non riesco a colmare quei vuoti. Forse più avanti, o forse resterà così.
Ho fatto un lavoro disumano di ricostruzione e liberazione interiore, e una ricerca storica puntuale.
Abbiamo espresso questo cammino (mio e di Ermes) attraverso una modalità comunicabile anche ad altri -ecco il perché della forma del romanzo- affinché questo frammento di memoria che non appartiene solo a me (a noi) ma presumo alle generazioni a venire, diventi un po' meno memoria individuale e un po' più memoria collettiva.
La “lezione” che ho trovato e che mi è stata lasciata desidererei divulgarla quanto più possibile – da qui l'idea iniziale di scrivere una sceneggiatura per il cinema; le storie raccontate attraverso le immagini sono fruite da un numero elevato di persone, incontrano più persone della parola scritta – ma anche un romanzo, scritto con un linguaggio semplice (quasi narrato sottovoce) , costruito come un poliziesco, con un intreccio sorprendente, magari letto ad alta voce, con descrizioni che aiutano ad evocare immagini e denso di dialoghi dovrebbe, a mio avviso, stuzzicare a pensare, a interrogarsi, a conoscere.”
Recensione a cura di Loretta Buda
Lydia Flem, Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto, 2005
....e scrivo quello che non saprei mai dire a nessuno Primo Levi

Questo lungo preambolo giustifica solo la motivazione che soggiace alla scelta del libro, ma lo scopo della mia riflessione è la sorpresa di scoprire, fra le sue pagine, una storia che l’autrice definisce con dolorosa chiarezza solo nella fase di “spoglio” della casa. Documentato, tra le carte ritrovate nei cassetti, le si rivela il tragico destino dei nonni e degli zii durante il nazismo.
(...)“Perché, tra tante altre cose possibili, ho avuto la tentazione di aprire questa valigetta di cuoio patinata dal tempo? Caso o intuizione. Conteneva fasci di lettere di cui ignoravo l'esistenza. Scritte, in tedesco, dalla madre di mio padre e indirizzate a lui, in collegio, quando era un giovanissimo adolescente, nel 1938, parlavano di un tempo che mio padre non aveva mai evocato in mia presenza. Di questa nonna russa, deportata e assassinata dai nazisti nel 1942, non sapevo niente.”.(...) E adesso toccava a me, da sola, infrangere questo tabù. Quello che mi avevano nascosto era peggio di quanto avevo letto o ascoltato? Quello che ne sapevo, non potevo saperlo, non avevano voluto che lo sapessi. Era un sapere proibito. Macchiato d'orrore, di vergogna, di ricusazione, un sapere chiuso nel ghiaccio, pietrificato.(...)"
"Ricordare non è soffulgere di rosa" scrive Nino Pedretti, non sempre il ricordo si avvolge di tenerezza, spesso, come in questo caso, ricordare “è scavare con la mente corrosa”. Le scoperte che gradualmente la figlia faceva la lasciavano sbigottita; rovistando, con pudore, tra i ricordi personali dei genitori emergevano dolori mai espressi, ferite mai sanate.
"(...) A questo passato inesprimibile, a questo susseguirsi di traumi vissuti prima della mia nascita, che cosa potevo opporre se non la ricerca ostinata, brancolante, delle parole perdute? Per diventare la loro «libera» erede, dovevo rompere l'assolutezza di un silenzio di cui ero ostaggio da sempre. Scrivere diventava un compito urgente. Attraverso l'elaborazione della lingua, la parte indicibile del loro passato non mi avrebbe più impedito di vivere la mia vita, separata dalla loro. Non sarei più stata il recinto passivo del loro sconforto e del loro mutismo, ma l'erede attiva della mia filiazione.”
"(...) A questo passato inesprimibile, a questo susseguirsi di traumi vissuti prima della mia nascita, che cosa potevo opporre se non la ricerca ostinata, brancolante, delle parole perdute? Per diventare la loro «libera» erede, dovevo rompere l'assolutezza di un silenzio di cui ero ostaggio da sempre. Scrivere diventava un compito urgente. Attraverso l'elaborazione della lingua, la parte indicibile del loro passato non mi avrebbe più impedito di vivere la mia vita, separata dalla loro. Non sarei più stata il recinto passivo del loro sconforto e del loro mutismo, ma l'erede attiva della mia filiazione.”
Lydia ha intrapreso, la via della scrittura, il solo modo che le permettesse di diventare la “libera” erede dei suoi genitori. Scrivendo ha cominciato a esplorare il rapporto avuto con loro, con i sentimenti e con la realtà che aveva vissuto, riuscendo così a superare anche l’assolutezza del distacco.
"Lo sgomento che mi abitava era più intenso perché era il doppio del loro stesso sgomento che non avevano saputo fronteggiare, elaborare, digerire, trasformare,(...) Ero cresciuta senza potermi appoggiare a loro, assorbendo le loro angosce e i loro incubi. Niente veniva mai detto, al contrario, facevamo come se fossimo una piccola famiglia senza storia: papà, mamma, la bambinaia e io, e invece erano in gioco Hitler, Stalin, la Storia e noi."
Collegando in una narrazione quei frammenti di esistenze l’autrice ha conferito “senso storico e significato morale” ad una vicenda familiare che si apre sullo scenario della Storia maiuscola; è riuscita a contrastare, con “la ricerca ostinata e brancolante, delle parole perdute” la smemoratezza di un’epoca, la nostra, che appare quella della precarietà e delle emozioni senza memoria.
A questo punto, anche se l’orrore è grande e non vuole essere tramandato non si può non ricordare una data: 27 gennaio, giornata della memoria. Un giorno che puntualmente ci chiede di dare una possibilità alla pace e di riflettere sul valore della memoria storica nel presente, anche alla luce dei tanti e tragici avvenimenti cui assistiamo quotidianamente.
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a cura di Loretta Buda
A questo punto, anche se l’orrore è grande e non vuole essere tramandato non si può non ricordare una data: 27 gennaio, giornata della memoria. Un giorno che puntualmente ci chiede di dare una possibilità alla pace e di riflettere sul valore della memoria storica nel presente, anche alla luce dei tanti e tragici avvenimenti cui assistiamo quotidianamente.
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"La notte della befana" in Emma Perodi, Le novelle della nonna
Il pomeriggio è tardo e stanco come si addice ad un generico pomeriggio invernale. Fra poco accenderò la vecchia stufa di terracotta e provvederò che si mantenga calda per tutta la notte. Prima di coricami preparerò il latte in un tegamino e lo metterò sulla stufa, così la Befana potrà ristorarsi bevendo il latte tiepido. Sono certa che la “vecchia” verrà, i miei nipoti la aspettano e hanno già preparto la calza; io non attendo regali, mi concedo, fin da ora, il dono dell’attesa di una notte speciale. Sono felice di riconoscermi, senza imbarazzo, in quella parte bambina che attende il ritorno di una notte antica, una notte di attesa che mi prepara al racconto. Quindi, condivido un consiglio di lettura ripescato anche questo in una memoria antica: in una pubblicazione Salani del 1933.
Ritroviamo nuovamente la Befana in una raccolta di racconti di Anna Rosa Balducci, Nonni e re e anche un tre, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena, 2004
La sera della vigilia dell'Epifania, i bambini del vicinato giunsero a veglia al podere dei Marcucci con la loro calza in mano: alcuni allegri, altri con una faccia lunga come se qualcuno li avesse ben bene rimproverati. erano lì per sentire raccontare la storia dalla nonna "di casa". La storia de:
La Calza della Befana.(...)Allorchè la nonna se li vide tutti dintorno incominciò. Dovete sapere che al tempo dei tempi abitava sopra una vetta chiamata Monte Fattucchio, una vecchia lunga lunga, con certe braccia che parevano pertiche e una testa di capelli bianchi tutti arruffati. Nessuno aveva mai conosciuto da giovane codesta donna, eppure in paese vi erano de' vecchi di novanta e anche di cent'anni, che si rammentavano di tutto quel che era accaduto da un mezzo secolo in poi; ma la Befana l'avevan sempre vista vecchia, sempre vestita allo stesso modo, sempre a lavorare una calza rossa, che non finiva mai. Come campasse nessun lo sapeva, e neppure di che famiglia ella fosse. Non aveva parenti, e in casa non teneva altro che un gattone nero e una gallina spennacchiata. Tutti i giorni dell'anno, col solleone o con la neve, partiva di casa all'alba e andava nel bosco a far legna; la sera tornava col fastello delle legna in testa e con la calza in mano. Se le donne di Monte Fattucchio le domandavano : Dite, Befana, che ne fate di code ste legna che vi caricate sulle spalle tutti i giorni, indistintamente ?Lei rispondeva :-Ne faccio tizzi e cenere( ...)
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Tommaso Bordonaro, La spartenza, Einaudi, Torino, 1991. Oggi ripresentato dall’editore Navarro, con la prefazione di Goffrdo Fofi
Recensione a cura di Loretta Buda
Sono
soddisfatto della mia vita passata, un po' male un po' bene. Sento il
dovere ringraziare Dio ed all'età di 79 anni e 2 mese porto
attermini la storia della mia vita passata.Grazie per avere ascoltato
la mia storia.
15
agosto 1988
Settembre,
mese di rientri, tempo del ritrovarsi e dell’affaccendarsi
domestico. Adattandomi ad una regola non scritta ho inaugurato il
mese riordinando gli scaffali della libreria e, fra una spolverata,
una rilettura di titoli e una rapida scorsa alle pagine, la mia
attenzione si è soffermata sulla prima edizione del volume “La
spartenza”.
La
Spartenza è il diario di Tommaso Bordonaro in cui l'autore,
scrittore “illetterato”, racconta la sua
vita dall'adolescenza, negli anni Venti, l'emigrazione negli Stati
Uniti e la “spartenza” dall'Italia. “Dolorosa
e straziande è stata la spartenza”
scrive Tommaso, in uno dei tre quaderni che raccolgono le sue memorie
le quali, presentate al concorso dell’ARCHIVIO NAZIONALE DEI DIARI
di Pieve Santo Stefano nel 1990, lo consacrarono vincitore.
“Sono
nato il 4 luglio 1909 in un piccolo paesetto della Sicilia. Ma nei
tempi che io sono nato la mia famiglia erava di bassa continzione
povera quasi nella miseria. I miei genitori essendo di classe poveri, mio
padre e mia madre con due figli campavano alla giornata. (...)
Bordonaro,
contadino semianalfabeta, con la sua
scrittura “selvatica e rocciosa” ci
consegna una storia che si riassume nel titolo; la spartenza, parola
che custodisce tutto il dolore e lo strazio di chi è costretto a
lasciare la propria terra e la propria famiglia per partire verso
terre lontane e/o lontanissime. Una parola che,
come afferma Camilleri:-coglie veramente la radice amara, tossica
della partenza. Il diario è la testimonianza umana di una lunga vita
supportata e orientata da solide convinzioni che, con la sua
scrittura semplice, ci stupisce e conferma le parole di Cassola:-
Nulla è più stupefacente di un’esistenza comune, di un cuore
semplice.1
Il
mio interesse verso il libro non è stato sollecitato solo dalla
sorpresa del suo ritrovamento, ma dalla consonanza con le storie
degli emigranti che, negli anni ’60, da San Gregorio si sono
trasferiti a Meldola. Ricordando immediatamente le loro testimonianze
non ho potuto far altro che sfogliare le pagine ormai ingiallite del
libro e ritrovare connessioni con le voci di Maria, Gregorio, Rina,
Vito e altri.
Anche
loro, i testimoni della ricerca: "STORIE MIGRANTI. Da San Gregorio Magno a Meldola", presentata il
29 agosto, hanno raccontato lo strappo patito con le loro partenze;
un lasciare doloroso, un dolore che hanno vinto con determinazione
sapendo che era necessario andare.
Quando torni al Sud, piangi due volte- afferma
Maria- quando arrivi e quando parti.
La storia di Tommaso e
quelle narrate dai testimoni ci appartengono come quelle di tutti
gli emigranti che in tempi diversi hanno fatto dell’Italia terra di
percorrenze, di partenze e approdi. In entrambe i libri si ritrova
una sapienza analfabeta, tramandata senza parole, un sentimento di
comunanza che raccoglie le voci di Mario, Angela, Maria, Antonia e
Giovanni. Anche loro protagonisti di una vita vissuta con
fatica, non si sono mai arresi di fronte agli ostacoli che la stessa
ha loro frapposto; uomini e donne che hanno saputo, con fatica e
impegno, affrontare le difficoltà sostenuti da forti principi
morali. “Vivi povera, ma onesta“ afferma Antonia
vantandosi di essere riuscita a mettere in pratica l’insegnamento
della nonna.
Le storie di vita raccolte
raccontano una realtà che oggi ci appare sicuramente distante.
Storie di lavoro, di fatica, di rinunce, di zolle durissime da
frangere nel gelo dell'alba, di esistenze dedicate interamente al
lavoro, di schiene curve sotto il peso dei mestieri, di donne che “si
sono cresciute da sole”. Un mondo incomprensibile per noi, che
ormai ci ingobbiamo solo per fissare un display
“Io ho deciso assoluto
andare in America non per il mio avvenire, perché io sapevo che
dovevo trovare del pegio, ma per i figli poter fare tutte le scuole e
potere imparare qualche professione e qualche mestiere e non essere
schiavo al lavoro e alla miseria. Così ho deciso di lasciare la mia
terra nativa ed emigrare in America”.
Anche
Angela, non ha rimpianti, sa che questo era il suo destino ed è
contenta che i suoi figli e nipoti crescano a Meldola.
“La
via si fa con l’andare” , scriveva Machado e così, le
parole di un poeta, concordano con il dire di Maria che, nel 1970,
intraprese fiduciosa un sentiero percorso che non conosceva.
Sono partita così, senza immaginare niente: mi son detta:
“Boh?...qualcosa troverò”.
Bordonaro
a conclusione del racconto della sua vita ringrazia chi ha
ascoltato/letto la sua storia ed io mi sento di fare altrettanto
rivolgendo il mio grazie alle persone che hanno offerto le loro
narrazioni alla Storia e che, da veri maestri, si sono donati senza
chiedere e hanno insegnato senza sminuire.
1Carlo
Cassola
Dalla
quarta di copertina dell’edizione del 1991
La
spartenza è il diario scritto da un contadino siciliano che
racconta la sua vita dall'adolescenza, negli anni Venti, fino a oggi.
In mezzo, a dividere in due la vita e il libro, la "spartenza"
dall'Italia, l'emigrazione negli Stati Uniti. L'autore, Tommaso
Bordonaro, percorre ambienti e situazioni sociali nella Sicilia
rurale d'anteguerra e nell'America degli immigrati italiani
utilizzando una lingua impastata di vocaboli dialettali e inglesi,
tanto sgrammaticata quanto autentica. Bordonaro - come scrive Natalia
Ginzburg nella prefazione - "ha la facoltà di comunicare. Non
conosce strutture, e a volte indugia a lungo su una sola giornata,
dedicando poche righe a eventi che diremmo memorabili. Raramente
descrive, e in genere si limita a dire quello che gli è successo,
nel bene e nel male; pure, attraverso le sue frasi rocciose e le sue
parole deformate, tutti i luoghi della sua vita, il paese dove è
nato e cresciuto e la nave che lo porta via dall'Italia e
quell'angolo dell'America dove riesce a installarsi dopo lunghi
disagi, li vediamo, senza che siano spese molte sillabe per spiegare
com'erano". Felicemente libero da qualsiasi atteggiamento
letterario, il diario di Bordonaro è la fresca testimonianza umana
di una lunga vita vissuta, come dice lui stesso, "un pò male un
pò bene", sempre all'insegna di convinzioni e principi morali
che la sua scrittura semplice riesce a spiegare come altrimenti non
si potrebbe.
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Ernesto Che Guevara, LATINOAMERICANA. Diario di un viaggio in motocicletta, Feltrinelli Real Cinema, 2004. Nella foto la copertina dell'edizione Oscar Mondadori, 2013
Recensione a cura di Astrid Valeck
Nel 1952, in sella ad una
vecchissima Norton 500, Ernesto Guevara e il suo amico Alberto
Granado si mettono in viaggio. Ben presto si ritrovano a dover
proseguire a piedi o in autostop vivendo di elemosina e di carità.
La loro esplorazione
lungo le vie dell'America Latina durerà 8 mesi, passando attraverso
l'Argentina, il Cile, il Perù, la Colombia e il Venezuela.
Ernesto terrà i contatti
con la famiglia attraverso delle lettere, ben conscio della
pericolosità del viaggio che stanno compiendo, ma mai lamentandosi
per le difficoltà o le sofferenze patite che pure devono essere
state molte per via dell'asma di Ernesto e delle molteplici crisi
respiratorie che trapelano tra le righe.
La sua scrittura mantiene
sempre un tono acuto, ma al contempo sottilmente ironico e piacevole.
Nelle sue pagine compie
un'analisi economica, politica e sociale dei posti che Alberto e lui
attraversano, aggiungendovi le sue riflessioni personali.
"Il nostro viaggio
continuava alla solita maniera, mangiando ogni tanto quando qualche
anima caritatevole si impietosiva della nostra indigenza. Ma non era
mai molto quel che mangiavamo e il deficit si aggravò quella notte,
quando ci avvisarono che poco più avanti non c'era modo di passare
per via di una frana, e così ci fermammo in un paesino chiamato
Anco. L'indomani mattina presto riprendemmo la marcia a bordo del
camion, ma poco più in là c'era un'altra frana e restammo fermi
tutto il giorno, affamati e incuriositi, a osservare i lavori per far
saltare gli enormi massi che erano caduti sulla strada. Per ogni
operaio, c'erano almeno cinque capetti ficcanaso, che distribuivano
pareri e molestavano in tutti i modi il lavoro degli addetti agli
esplosivi, che dal canto loro non erano certo degli esempi di
efficienza."
[..]"Pur considerandone la
semplicità, una delle cose che più ci ha impressionato è stato il
commiato dei malati. [..] Alcun di loro sono venuti a salutarci
personalmente e a più d'uno sono scese le lacrime ringraziandoci per
quel poco di vita che gli avevamo dato, mentre stringevamo le mani,
accettavamo i regali e ci sedevamo in mezzo a loro ad ad ascoltare la
radiocronaca di una partita. Se c'è qualcosa che, un giorno, dovesse
convincerci a dedicarci seriamente alla lebbra, sarà questo affetto
che ci dimostrano i malati di ogni parte."
Tutta la narrazione è
tesa ad illuminare il destino di Ernesto. Il viaggio - ma soprattutto
gli incontri - gli mostra quale sarà il suo cammino di vita e ciò
che lo spinge a quella che potremmo chiamare l'inquietudine
migratoria. Un bisogno di
partire che non è solo uno scoprire nuovi orizzonti quanto un
bisogno di ampliare le proprie conoscenze e di capire. Una necessità
profonda di indagare i bisogni della gente più povera, qualcosa che
si può raggiungere solo fermandosi lungo il cammino, vivendo a
contatto con le persone, immergendosi nella miseria umana presente in
ogni angolo in cui lo ha portato il suo viaggiare.
"La notte, svanita al
contatto delle sue parole, tornava ad avvolgermi, confondendomi in
lei; però, malgrado le sue parole, adesso sapevo...sapevo che nel
momento in cui il grande spirito che governa ogni cosa darà un
taglio netto dividendo l'umanità intera in due sole parti
antagoniste, io starò con il popolo [..]"
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Dolores Prato, Giù la piazza non c'è nessuno, Mondadori, Milano, 1987
Recensione a cura di Loretta Buda
«Strana
condizione è quella dell’intera esistenza, in cui tutto fluisce
come l’acqua che scorre, ma in cui, soli, i fatti che hanno
contato, invece di depositarsi al fondo, emergono alla superficie e
raggiungono con noi il mare».1
Parafrasando
Eugenio Scalfari2
dichiaro che non sono io che ho scelto il libro, ma è il libro che
ha scelto me. Il ponderoso volume mi è venuto incontro caracollando
sulle sue settecento pagine attraverso i fogli del Domenicale del
Sole 24 Ore3
dove, Elena Loewenthal definiva: “Giù la piazza non c’è
nessuno,” non solo un pregevole romanzo autobiografico, ma un
capolavoro a firma di uno dei più straordinari esempi di scrittura
al femminile del Novecento italiano. Fu un felice incontro anche se
l’incompiutezza del titolo e il nome dell’autrice, a me
sconosciuta, non avevano acceso un immediato interesse.
Ora,
rivisitare il romanzo di Dolores Prato, ripercorrerne i paesaggi,
rivedere le persone che li hanno abitati, riascoltare le voci che
l’autrice ricompone in una fitta tessitura, è per me occasione di
rinnovato stupore. Un libro che, dopo sei anni, torno a definire
straordinario nella sua composizione e nella sua scrittura; un
avvincente racconto d’infanzia che si articola nell’arco
temporale di dieci anni (tra Ottocento e Novecento) e prende luce e
voce dal paesaggio marchigiano: ”Treja fu il mio spazio,
il panorama che la circonda la mia visione“. L’autrice,
racconta la sua Treja nella consapevolezza del potere evocativo e
suggestivo delle parole; parole che permettono a Dolores di ritrovare
il lessico dell’infanzia
di Treia che, per lei, equivale a rintracciare quella parte di
sé che è cresciuta insieme a quel linguaggio. Attraverso le parole
recupera brandelli d’affetto sfilacciati e... così: tacendo e
cucendo i ritagli facevo il vestito di Arlecchino del mio
guazzabuglio. Una lingua che fa di lei, come scrive Giorgio Zampa
nell’introduzione “un autore ascrivibile […] ad una
categoria di irregolari […]
I
ricordi dei dieci anni trascorsi nella cittadina marchigiana, si
presentano alla memoria della protagonista attraverso espressioni che
costituiscono un preciso lessico familiare e danno forma e durata a
un’esperienza che è prima di tutto esperienza interiore.
Quello che appare memoria, scrive Dolores Prato, “è
raccolta di cicatrici, un album di incisioni”. L’infanzia di
Dolores trascorre in estrema solitudine e, sebbene cresciuta e curata
dagli zii, l’impossibilità di guardarsi alle spalle e ritrovare
una storia nella quale collocarsi crea un vuoto emotivo. La bambina
girandosi non trova un padre, c’è una mamma che la porterà tra i
neonati ripudiati, e davanti a sé solo una coppia di zii anziani:
zii, di cui la bambina sa poco o nulla. Lui è sacerdote e vive a
Treia con la sorella Paolina. Entrambi vogliono molto bene a Dolores,
ma sono troppo vecchi per relazionarsi con una bambina e la zia non
ha quell’inclinazione materna che dovrebbe esprimersi con quelle
carezze e tenerezze di cui la piccola sente ferocemente la mancanza.
“Madre
e figlia eravamo [..] Con lei dovevo restare. Invece un sollecito
trasferimento mi portò tra i neonati ripudiati, un biberon diventò
il mio elemento materno. [..] Quando la madre meccanica mi riprese,
dissi «mamma» a lei. Però mi aveva ripresa non per tenermi, ma per
ripulirmi e portarmi a Treja dove, era convenuto, mi avrebbe
appiccicata agli zii [..]. Nella paura della notte continuai per un
po' a dire mamma con la mia lagnosa supplica «mamma, venì», ma poi
evitai la parola come un paracarro.”
La
situazione di abbandono fa sì che la bambina si isoli in un mondo
suo nel quale gli zii, Zizi e Paolina, sono le radici; radici
purtroppo precarie e inadatte per un saldo ancoraggio alla vita.
“Amore vero per me fu quello degli zii, ma purtroppo fu un amore
distillato, privo di quel calore di cui ha bisogno un pulcino per
uscire dall’uovo. [..] io non sono stata covata.
La
scrittura, come ho già affermato, sfugge completamente ai canoni
narrativi tradizionali e, nel suo fluire, restituisce un
senso alla sofferenza che lei, dotata di un’eccezionale resistenza
al dolore, affronta imperterrita.
Dalla
mia descrizione il libro potrebbe sembrare patetico e lamentoso,
invece, ad una nostalgia regressiva, la Prato oppone una nostalgia
creativa che, attraverso la scrittura, dischiude un’energia che si
libera in una coinvolgente narrazione. Le emozioni e le riflessioni
si intercalano alle descrizioni dettagliate di luoghi, oggetti,
persone e da una minuziosa osservazione della realtà. “Le
persone non mi parlavano, ma le cose si[..]. Forse perché
vivevo sola nel silenzio, tutto mi parlava, anche l’impagliatura di
certe sedie antiche di noce”. Sempre Giorgio Zampa
nell’introduzione al libro scrive: “Quando Dolores ebbe coscienza
del buio che era all'origine della sua vita, quando sentì che mai
avrebbe potuto diradarlo [..] la pena che aveva fatto di lei una
creatura irrecuperabile, si trasformò in forza creatrice.
Oltre
allo stupore che sollecita la personalità di Dolores Prato,
esordiente a ottantotto anni, il libro è sorprendente anche per la
sua particolare storia editoriale. Fu pubblicato per la prima volta
da Einaudi mutilato da un penalizzante editing di Natalia Ginzburg
(trecento pagine contro le settecento originarie), ma l’autrice,
senza perdersi animo si affidò alla “cura” di Giorgio Zampa,
rivisitò l’opera che fu pubblicata postuma, prima da Mondadori e
successivamente da Quodlibet.
Mi
piace pensare alle opere della Prato come a prodotti di nicchia,
pubblicazioni caratterizzate da un impatto
mediatico minore rispetto alle altre che “invadono”
le vetrine delle librerie. Libri apprezzati a estimatori di
una lingua che garbatamente riesce ad emanciparsi dal modello
ricorrente con una scrittura “che nulla nasconde e nulla
rivela”; libri pensati per lettori che sappiano destreggiarsi
fra i ricordi “di tanti pezzetti di eternità mischiati con
tanti vuoti, tanti niente”. Infatti nel romanzo la rievocazione
dell’infanzia non si dispone in una sequenza di fatti, ma si
colloca sulla pagina con accumulazione di immagini, di episodi, di
oggetti, di persone e vissuti.
Concludo con un profondo
senso di inadeguatezza per non essere riuscita a scrivere tutto
quello che avrei voluto e dovuto, però accetto di sentirmi,
inconclusa, come scrive Dolores in chiusura del romanzo. “Eravamo
tutti inconclusi. [..] come il Sile, fiume inconcluso, fiume
disperso.
Accolgo
il senso del “non finito” che caratterizza la storia e la
scrittura della Prato, un’incompletezza che agevola transiti per
chi volesse intraprendere un entusiasmante viaggio in questo racconto
di vita; e decidere di lasciarsi attraversare dal brusio di voci, di
segni e simboli di un libro che, come scrive ancora Elena Lowental, a
scoprirlo ci si sente in colpa per non averlo scoperto prima.”4
Dolores
Prato nacque a Roma il 12 aprile 1892 da una relazione della madre,
Maria Prato, già vedova Pacciarelli, con un avvocato calabrese. Vive
l’infanzia e la giovinezza a Treia, prima in casa degli zii (e il
ricordo di quegli anni è l’asse portante del primo romanzo Giù
la piazza non c’è nessuno, pubblicato da Einaudi nel 1980),
poi, dal 1901-2 al 1910, nel collegio salesiano delle Visitandine,
dove è ambientato il nuovo romanzo postumo Le ore pubblicato
da Scheiwiller nel 1987 con la cura editoriale che gli è nota, e
corredato da una illuminante nota critica di Giorgio Zampa. Morirà
ad Anzio il 13 luglio 1983.5
1
Marguerite Yourcenar
2
Non sono io che ho fatto il
mio libro, ma il mio libro che ha fatto me»
3Elena
Loewenthal «Il Sole 24 Ore. 06-12-2009
4
Elena Lowental
5
da Wikipedia

Melania G. Mazzucco, Vita, Rizzoli\BUR, Milano, 2010
recensione
a cura di Ermes Fuzzi
Melania
Mazzucco rievoca la figura di un nonno mai conosciuto, di nome
Diamante, attraverso le narrazioni di suo padre e di uno zio. Tutto
parte dai racconti che la scrittrice ha ascoltato su un viaggio epico
verso gli Stati Uniti d'America nei primissimi anni del '900. Il
giovanissimo Diamante, a dodici anni, fugge da un povero paese del
sud, Tufo, con pochi denari cuciti nelle mutande. Riesce a sbarcare a
New York insieme a una bimba di appena nove anni di nome Vita. Di
quella bimba si trovano solo poche tracce nei documenti che la
scrittrice rinviene, durante un soggiorno americano, presso
l'archivio degli emigrati di Ellis Island. Il libro si sviluppa su
due diversi piani narrativi.
Il
primo è quello delle ricerche compiute negli archivi, nei registri
battesimali e nei musei dedicati alla migrazione. Melania Mazzucco
approfondisce la propria ricerca avvalendosi anche di numerose
raccolte di foto, le interroga cercando di riconoscere le persone di
cui ha sentito parlare. Nei luoghi che hanno visto le origini della
sua famiglia ha l'occasione di incontrare un'anziana ultra
novantenne, ospite di una casa di riposo nella zona dove un tempo
sorgeva il paesello di Tufo. Dalla sua narrazione riesce ad ottenere
le prove dell'esistenza di Vita oltre ad aver trovato alcuni
documenti nei registri battesimali del luogo. Tufo non esiste più
nemmeno sulle mappe geografiche, cancellato dal passaggio del fronte
durante la seconda guerra mondiale. La ricerca è lunga e
appassionante tesa verso un passato difficile da far emergere.
Il
secondo piano narrativo è quello del romanzo vero proprio. Si prende
coscienza che la storia di una famiglia senza storia corrisponde
spesso alla sua leggenda. Quest'ultima, di generazione in
generazione, si arricchisce di particolari, nomi, episodi. La
leggenda, tramandata oralmente durante l'infanzia, viene ritrovata
troppo tardi quando cioè nessuno può rispondere alle domande più
semplici e necessarie. La ricerca sui temi delle origini diventa,
allora, tanto più urgente e la volontà della memoria non può
essere rimandata, diventa un imperativo. Inseguendo quelle incerte
tracce lasciate un secolo fa dai due ragazzini, Diamante e Vita,
Melania Mazzucco riesce ad afferrare i fili della identità familiare
che, infine, è anche la sua. Li immagina partiti come clandestini
nascosti nella scialuppa di una grande nave diretta a New York.
Descrive il loro arrivo alla dogana e i trattamenti discriminatori
subiti dalle autorità. Due ragazzini che ritrovano una comunità
italiana nei quartieri più poveri della città dove vive il padre di
Vita divenuto un commerciante che subaffitta i locali di un vecchio
palazzo agli emigrati del proprio paese d'origine. Partono da quel
caseggiato e per le vie della città le storie che la scrittrice
sviluppa verso il tema centrale della condizione dei migranti
italiani di quell'epoca. Risveglia importanti riflessioni
sull'attualità storica della migrazione partendo dalle condizioni
vissute dai nostri avi. Così si sviluppano pagine di grande
intensità che spostano il racconto su diversi luoghi e vicende
umane. Dallo sfruttamento del lavoro mal pagato e sostenuto in
condizioni al limite dell'umano, alla formazione delle prime
organizzazioni malavitose. Ma anche pagine sulla forza e la volontà
di trovare una condizione sociale ed economica dignitose da parte di
coloro che sono riusciti a non piegarsi a destini imposti da terzi.
Melania Mazzucco è alla ricerca delle proprie radici, della propria
storia. Il suo lavoro non evoca nostalgie e nemmeno ricostruzioni
sommarie. È frutto di immaginazione e creatività basate su
documentazioni e testimonianze studiate, ascoltate e interrogate con
rigore metodologico. Ma la componente che emerge chiaramente dalle
pagine e anima il libro, è la passione, il bisogno incontenibile di
ritrovare le figure che compongono la biografia familiare. Una
ulteriore prova di quante possono diventare le potenzialità di una
scrittura alla ricerca della propria storia.
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Astrid
Valeck, La valle dell’inverno , parolefatteamano,
2011
recensione
a cura di Ermes Fuzzi
In
una situazione straordinaria tre fratelli, Violante, Ludovico e
Santiago, sono costretti ad allontanarsi dal proprio paese e dai
propri genitori per raggiungere una non meglio conosciuta zia
abruzzese. Una epidemia senza precedenti ha colpito la loro città e
i genitori, medici ricercatori, sono impegnati per debellarla.
Iniziano così un viaggio che presto si trasforma in avventura
quando, ormai giunti a destinazione, i tre sono costretti a
proseguire a piedi dopo un guasto all’auto. Riescono a ricevere
informazioni telefoniche poco prima della scomparsa di ogni possibile
rete di telecomunicazione e proprio mentre hanno appena imboccato un
sentiero che deve condurli a casa della zia. Si entra nel bosco come
si entra nell’inconscio. Scompaiono i punti di riferimento come
cellulari e reti wireless tanto che il computer portatile di Ludovico
risulta inutilizzabile. Il sentiero è quello della Valle
dell’inverno entro cui si addentrano i tre fratelli e dove appaiono
i primi segni dell’esperienza fantastica che si apprestano ad
affrontare. L’incontro col cardopillo è la porta d’ingresso
alla fantasia della narratrice che, da questo momento, usa la
simbologia trasformatrice della nascita immergendo i personaggi nelle
acque di un fiume sotterraneo evocatore del liquido amniotico in cui
si può restare protetti e respirare. Un percorso attraverso il
cunicolo immerso nel ventre materno, la terra, dal quale i tre
vengono espulsi ridefinendosi in una dimensione fantastica.
L’incontro con la zia, finalmente raggiunta, prelude a una serie di
misteri che vengono in parte dissolti da Annunziata, personaggio
apparentemente ostile e dalle sembianze mostruose. Annunziata svela
la presenza di Alkazan che rispecchia diverse figure appartenenti al
mondo letterario biblico, della letteratura dell’infanzia e del
genere definito “horror” . Alkazan ha osato sfidare la
natura per diventarne dominatore ed è decaduto come l’angelo del
paradiso trasformato in Satana dopo la sfida a Dio. Nel contempo è
signore della notte e rifugge dalla luce come il personaggio di
Braham Stoker pena non il dissolversi in cenere, ma il trasformarsi
in roccia. È costretto ad essere un personaggio come quelli
inventati da Tolkien per potersi muovere durante il giorno sebbene
sempre nascondendosi nell’ombra. Per aumentare il proprio potere
sugli esseri si avvale degli obliatori che si nutrono dei
ricordi cancellando perciò i sogni e i desideri di conoscenza del
futuro di ognuno. Anche in questo caso il richiamo ai dissennatori di
J.K. Rowling risulta evidente anche se con una variabile importante:
mentre il dissennatore svuota la propria vittima dell’energia
vitale, l’obliatore ne cancella la memoria rendendola un vivente
dal cuore di pietra alla mercè dei propri ordini. Il torrente della
Valle dell’inverno è il principale simbolo di cambiamento perché
nello scorrere continuamente mutevole racchiude l’immutabilità e
la costanza della percezione che se ne può avere. Alkazan terrorizza
il bosco che accerchia la casa della zia e si insinua nel suo cuore
sfruttando le ombre e la collaborazione del suo strumento di terrore,
il marsicano, essere dalle sembianze di un grizzly fortissimo
che minaccia chiunque osi avventurarsi nei boschi della valle.
Entrano in gioco mondi paralleli, dove la dimensione temporale si
dilata e assume forme diversificate e inusuali. Violante sperimenta
la terribile esperienza della perdita di memoria, che è perdita
della propria storia. Ludovico è costretto a distaccarsi dalla
razionalità alla quale si è sempre appellato. Santiago esprime il
coraggio e la perseveranza vivendo una sorta di reincarnazione che si
disvela solo nelle ultime righe del racconto. Metafore e richiami
letterari fanno da cornice a questa sfida della fantasia che ci porta
a riflettere sulla fiducia che riponiamo nelle giovani generazioni.
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Daniel Pennac, Storia di un corpo, Feltrinelli, Milano,2012
Recensione a cura di ERMES FUZZI
Lison riceve, dal notaio di famiglia, un pacco di quaderni poco dopo il funerale di suo padre. Si tratta di una notevole quantità di appunti accompagnati da alcune lettere , indirizzate a Lison, che formano un diario del tutto particolare:
[…]” è davvero uno strano regalo: niente meno che il mio corpo! Non il mio corpo in carne ed ossa ma il diario che di esso ho tenuto all’insaputa di tutti nell’arco della mia vita.”[….].
Nulla del padre sociale o professionale o delle opinioni personali ma solamente il diario di un corpo. Il tentativo di distinguere il corpo dalla mente e di proteggerlo dagli assalti dell’immaginazione così come il tentativo, attraverso la scrittura, di difendere l’immaginazione dalle intempestive manifestazioni del corpo. Gli scritti hanno inizio nella Francia del ’36 quando il protagonista ha dodici anni. Il diario diventa un ambasciatore tra la mente e il corpo e traduttore delle sensazioni. Le pagine del corpo adolescente sono quelle delle identificazioni con i corpi familiari: il fratellino immaginario Dodo, il padre gravemente malato e reduce di guerra, la domestica Violette che sostituisce la madre anaffettiva e insoddisfatta di tutto e tutti, lo zio Georges che incita ad esercitare e rendere più forte il corpo. In questo gioco di identificazioni e di affetti l’odore di una persona amata diventa come una seconda pelle, i sapori dei cibi preparati con amore influenzano le papille gustative, la loro consistenza e il loro colore, persino la temperatura prende parte al piacere del corpo. Le esperienze di morte di persone care decretano la chiusura al cibo, ai sapori, al movimento. Solo un atto d’amore può rivitalizzare un corpo caduto nel lutto e risignificarlo nelle sorprendenti fasi della crescita dall’età adolescenziale a quella adulta. “Farsi gli occhi” con una studentessa, la strabiliante e fantastica scoperta del corpo femminile, catapultano il corpo verso dimensioni sorprendenti. Ma la storia del ’43 è incombente sulle sensazioni più forti.
[…] “Visti i crucchi sfilare al passo. Versione orribile del corpo unico.” […]
Così la guerra clandestina nella Resistenza impone fame, sete, disagi, insonnia, paura, ferite. Eppure il protagonista non si ammala così come i suoi compagni e i pensieri di tutti mettono il corpo del singolo al servizio di un grande corpo di combattimento, il corpo unico della Resistenza. Fino a quando, la fine del conflitto e dei combattimenti, riporta ognuno al proprio mucchietto di cellule personali e quindi alle proprie contraddizioni. Arriva l’incontro con la donna fatale, il lavoro, la paternità e la scoperta che tenere il corpo del proprio bambino in braccio non è affatto una sorpresa ma è come se fosse sempre stato lì. L’osservazione del suo modo di apprendere, di esplorare crea una serie infinita di rispecchiamenti e di ricordi che portano a intimità e volti ormai scomparsi.
[…] “Dal disegno, passammo alla scrittura. Sempre con la mano che guidava la mia, un portapenne invece della matita, mi faceva tracciare le lettere dopo avermi fatto disegnare i contorni delle margherite. Così ho imparato a scrivere: passando dai petali alle aste e ai gambi. Tracciali con cura, sono i petali delle parole!”[…]
Un diario che attraversa ogni età, ogni passaggio, ogni sorpresa, senza definire con nettezza quando finisce un’epoca dell’esistenza e ne inizia un’altra, senza nascondere come cambia la memoria che diventa un sacco pieno di buchi. Essa compensa in parte la scomparsa della reciprocità determinata dalla morte di una persona cara, l’improvvisa scomparsa della sua presenza fisica, del suo odore, della sua voce, della sua materialità. E’ destino di ognuno quello di terminare il contratto di locazione tra il corpo e l’io come un contratto stipulato tra due inquilini indifferenti. Solo alla fine ci si rende conto di essere figli del proprio corpo: figli disorientati.
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