Per rimanere in tema.
martedì 27 settembre 2016
domenica 25 settembre 2016
SCRIVERE IN NATURA
Meldola, Az. agr. La Casaccia
24 settembre 2016
Dedicato a tutti coloro che hanno partecipato al laboratorio di scrittura autobiografica
dedicato agli amici, a chi ha amici e a coloro che sono amici
La solitudine non è una fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo. Non si sceglie la solitudine per la solitudine, ma per la comunione, non per star soli ma per incontrarsi, in modo diverso con Dio e con gli uomini.
[A. Zarri]
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domenica 18 settembre 2016
MEMORIE DI LAVORO, Astrid Valeck ed Ermen Bertaccini
Chiudono questa breve rassegna Astrid ed Ermenegilda
Dall'introduzione di Astrid Valeck
Dall'introduzione di Astrid Valeck
[..]Nata
e cresciuta in varie zone della Romagna Ermen ha vissuto tutta la
vita “in bottega”. A Meldola per aiutare sua mamma nella merceria
e a Gatteo mare dove ha dato vita al negozio di abbigliamento che
porta il suo nome e che lei ha dedicato all'alta moda femminile.
Tante le persone famose e i professionisti che si sono rivolte ai
suoi consigli di modista, vestendosi esclusivamente con gli abiti che
lei sceglieva appositamente per loro, nelle varie gallerie di moda e
atelier. Il principio base che l'ha guidata nel lavoro è stato
quello della cura del cliente, tanto che le persone tornavano a
servirsi da lei, anno dopo anno. Un altro principio è stato quello
del fare il “passo adeguato alla gamba”, preventivando con
attenzione meticolosa acquisti e pagamenti, in modo da non avere
debiti e non dover richiedere prestiti. Ha dovuto iniziare con le sue
sole forze e l'ostracismo della famiglia, ma poco per volta è andata
sempre crescendo. Il lavoro è stata costante e guida della sua vita.
Finita la stagione al mare Ermen, anziché andare in ferie come la
maggior parte dei professionisti stagionali suoi colleghi, rientrava
a Meldola ad aiutare la madre nella bottega di famiglia[..]
Brano tratto dalla narrazione di Ermen Bertaccini
"UNO STRALCIO DELLA MIA VITA"
Mia
mamma aprì una merceria a Meldola nel 1956. All'epoca io andavo
ancora a scuola a Forlì, facevo le superiori e nel pomeriggio, per
aiutare mia mamma, ne approfittavo per fare la spesa per il negozio.
Ho preso il diploma di computisteria e volevo iscrivermi a
Ragioneria, ma non ho continuato a studiare perché già lavoravo con
lei.
Leggo
tante biografie che narrano di gioventù passate nelle passeggiate o
con le amiche: io quelle cose non le ho vissute. Non ho vissuto la
gioventù per tanti motivi, tra cui vicissitudini familiari.
A
24 anni ho deciso di aprire un negozio al mare, a Gatteo mare per la
precisione. In casa mia mi hanno detto: “Vuoi farlo?!
Arrangiati!”. Non so perché ho scelto questo tipo di lavoro e
il mare, forse è stato il desiderio di evadere. La mia vita a
Meldola, infatti, era sempre sotto l'ala di qualcuno. Non staccavo
mai. Lavoro-casa, casa-lavoro. Al mare ero solo io. Questa evasione,
anche se mi condizionava, mi realizzava. Lavoravo tantissimo, dal
mattino alla notte, ma ero felice.
Gli
inizi della mia professione a Gatteo mare
In
principio sono andata a lavorare con una signora che abitava vicino
all'Istituto dove sono nata e che aveva assistito mia mamma durante
la gestazione. [poi] ho cercato un affitto per provare da sola. Mi ha
aiutata un certo Sergio che aveva una macelleria, là al mare. Presi
il negozio sul lungomare perché dovevano costruire un porticciolo e
aprire un ponte e questo avrebbe consentito una zona di transito.
Nello stesso periodo una mia amica di Igea marina mise su un negozio
di accessori barche. Ci doveva essere un accordo tra Milano e il
comune di Gatteo: Milano costruiva il porticciolo e dopo 50 anni
questo sarebbe divenuto proprietà del Comune di Gatteo. Ma Gatteo
non accettò e anziché un porticciolo con un ponte, fu costruito un
ponticello. Ho sempre pensato che Gatteo si meritasse una bella
costruzione come il ponte dei Sospiri, non la bruttura che hanno
fatto. Il turismo era iniziato negli anni '50, tutto era un po' agli
inizi.
Come
dicevo ho iniziato con poco, il negozio lo avevo in affitto, arredato
un po' alla meglio. In seguito l'ho cambiato parecchie volte, fino ad
acquistarlo ma non ho mai chiesto mutui o prestiti. Ho sempre avuto
paura, ma questo credo abbia a che fare con gli eventi familiari e a
come sono stata allevata. Non ho mai fatto il passo più lungo della
gamba. Ho sempre fatto con quello che avevo, non ho mai chiesto
neppure un fido. Dicevo sempre che i soldi che prendevo non erano i
miei ma del negozio, perché l'anno dopo dovevo riaprire e fintanto
che la stagione non era nel suo pieno non c'erano guadagni. A fine
stagione, e cioè entro ottobre, dovevo fare gli ordini e ad aprile
mi arrivavano i capi di abbigliamento della nuova collezione. Avevo
le tratte da pagare: a 30, 60 o 90 giorni. Questo significava che già
a maggio avevo le prime scadenze di pagamento e ancora la stagione
era solo al suo inizio. Se non fossi stata accorta non avrei avuto di
che pagare la merce. Sono sempre andata del mio passo e quello che
guadagnavo lo reinvestivo. Certo ci sono stati periodi di crisi e
periodi molto buoni.
Ho
cominciato tenendo in negozio un po' di tutto, con lo spirito di
casa, quello della merceria. Nel tempo mi sono specializzata in
abbigliamento donna. Mi sono dedicata ai capi di abbigliamento un po'
raffinati, non li teneva nessuno. Ho cominciato a frequentare Milano
vende moda...Bologna fiere...e
ad avere marche esclusive.
Una
seicento bianco panna
Con
i primi soldi guadagnati ho preso la patente e mi sono comprata
un'auto: una seicento di color panna. Spesi ben 200.000 lire. Anche
quella volta la risposta della mia famiglia fu che se volevo la
macchina me la dovevo prendere da sola. La patente è stata una
grande conquista. L'ho presa tardi. I primi tempi, infatti, per
andare a lavorare a Gatteo prendevo la corriera. Tutti mi dicevano:
“Non hai la patente?! Sei un'oca”.
La
mia seicento l'ho poi venduta alla moglie di un signore che lavorava
nella ditta che mi teneva la contabilità. Se l'è goduta così
tanto! Ma quella seicento l'ho sempre nel cuore.
![]() |
Ermen nel suo negozio di Gatteo mare |
venerdì 16 settembre 2016
MEMORIE DI LAVORO, Ermes Fuzzi e Glauco Mercuriali
Oggi è il turno di Ermes e Glauco
Dall'introduzione di Ermes Fuzzi
Dall'introduzione di Ermes Fuzzi
[..]Con
grande lucidità Glauco ci regala lo spaccato di una vita in larga
parte dedicata al lavoro. Garzoni e ragazzi di bottega non si
contavano negli anni '50 e già in altri ricordi sono emersi come
modello educativo di un certo periodo della nostra storia locale e
non solo. Le famiglie, uscite dalla drammatica esperienza della
seconda guerra mondiale e spesso reduci da una infanzia segnata dai
gravi lutti causati dalla prima, cominciavano ad intravedere un
futuro migliore per sé e per i propri figli. La famiglia di Glauco
ha radici meldolesi che emergono attraverso una curiosa ma
attendibile analisi che il nostro narratore compie partendo dal
soprannome di famiglia: “Piruchì”. Fin dalle prime battute si
evidenzia un vero e proprio amore per la parola del dialetto che,
meglio di tante altre, riesce a cogliere sfumature e aspetti
difficilmente traducibili in italiano. Il romagnolo è quindi parte
sostanziale e significante della trama che emerge da queste pagine in
cui nulla è lasciato al caso.[..]
Brano tratto dalla narrazione di Glauco Mercuriali
"LA VITA VA VISSUTA CON UN SORRISO"
“Insavunadeur”
Iniziai
a lavorare che avevo 9 anni, come garzone, nel negozio di barbiere di
mio zio Divo nell'estate del 1955 tra la terza e la quarta
elementare. Ho fatto il garzone ininterrottamente dall'età di nove
anni fino ai diciotto tutti i sabati e le domeniche. Per me le
vacanze estive erano brevi e si consumavano in una settimana a
Riccione da una sorella di mia nonna. Una volta nella stanza in cui
tutti dormivamo eravamo in dodici. I materassi erano per terra e
avevo la testa vicino ai piedi di un altro bambino, un parente che
aveva la mia età. Lui sentiva l'odore dei miei piedi ed io quello
dei suoi. Questo per dire come erano le mie vacanze.
Come
garzone i miei compiti erano: spazzare la bottega, preparare la carta
per la barba e mettere il camice ai clienti che dovevano tagliarsi i
capelli. In quegli anni, soprattutto i contadini, non pagavano di
volta in volta ma facevano abbonamenti che saldavano a fine mese. E
infatti fino ai primi anni '60
mio zio, nel giorno di chiusura del lunedì e soprattutto d'estate,
andava a fare i servizi nelle case in campagna. Poi tornava a casa
con “quèl cùi scapèva” perché i contadini davano quello che
potevano. Allora nel negozio si lavorava ogni sabato
fino a mezzanotte e la domenica dalle sette di mattina fino alle tre
del pomeriggio. Per me lavorare tutti i sabati e le domeniche durante
il periodo scolastico e tutta l'estate, a parte la settimana di
Riccione, era un grosso sacrificio. Me ne sono accorto nel tempo che
cosa abbia rappresentato per la mia infanzia. Il sabato pomeriggio i
miei amici andavano a giocare a pallone e la sera andavano al cinema.
La domenica mattina andavano alla messa poi di nuovo a giocare. Io
quelle cose non le ho potute fare.
Un
altro compito che mi era affidato ogni tanto era quello di spalmare
sui capelli la brillantina, quella dura. Mettevi il prodotto sulle
mani, lo spalmavi sulla testa del cliente tirando dalla fronte e
dalle tempie verso la nuca. La brillantina si staccava dalle mani e
si attaccava ai capelli. Era un piastrone! Lavoravo coordinandomi con
lo zio come in una piccola catena di montaggio e smontaggio. Quando
stava per finire un servizio con un cliente ad un certo punto mi
diceva: “Cmènza!” allora io, in un'altra poltroncina,
insaponavo un cliente col sapone da barba. Appena ero pronto lo zio
arrivava per il taglio ed io mi spostavo nella postazione dove lui
aveva terminato e spruzzavo sul viso del cliente un'acqua di colonia
diluita e spesso usavo la pietra emostatica sulle parti rasate.
Fra
i miei compiti quello principale era di insaponare le barbe ed è per
tale motivo che sono stato il più grande “INSAVUNADEUR” che la
storia del garzonaggio del dopo guerra abbia mai avuto. Una volta lo
zio mi invitò, prima del dovuto, ad insaponare un cliente. Ero
giovane e la forza nelle braccia non mi mancava. Quando insaponavi,
per fare più schiuma, muovevi il pennello sul mento del cliente in
senso rotatorio. Quella volta insaponai più del dovuto ed al momento
del cambio mio zio chiese: “Alòra cum vàla?”.
Al
ché il cliente, passandosi due indici diritti sulle guance con un
movimento dalle orecchie alla bocca, disse: “Questa la scàpa da
per sè!”. A forza di sbattere il pennello gli avevo fatto
diventare il mento completamente “informicolito”.
Un
altro episodio che ricordo è quello di un sabato pomeriggio quando
arrivò un autista di piazza che voleva lavarsi i capelli. Allora
c'erano gli “chaffeur” conducenti d'auto con noleggio. Lo
“chaffeur” doveva essere sempre a posto, ben vestito, pulito e
ben pettinato. Si affacciò al negozio e disse: “Divo! Um pèzga
la testa! Bsògna tum leva la testa”. Il negozio era pieno di
clienti e mio zio gli rispose: “Guèrda! Adès agnèla fàz però
se ta t'adèt ut la leva Glauco e a tla sug mè!” e lui di
risposta “Sè sé! La va bè!”. Allora la sequenza
consisteva in questo: il cliente si metteva seduto sulla poltrona e
prono col viso sul lavandino. Gli appoggiavo una ciambella di gomma
sulla testa per evitare che l'acqua e il sapone andassero a bagnare o
irritare gli occhi. In seguito cominciavo a lavare la testa cercando
di fare schiuma. Avevo diciassette anni ed ero nel pieno delle forze
e sciacquavo tra una insaponata e un risciacquo. Arrivato al terzo
risciacquo, dal profondo del lavandino, si sentì una voce flebile
che sussurrava: “Dai dai Glauco ca ciàp e bus!”. A forza
di spingerlo si era dovuto alzare dalla sedia ed era finito con la
testa vicino al buco dello scarico dentro il lavandino.
Ogni sabato dalle 14.00 alla mezzanotte e
la domenica mattina dalle 7.00 fino alle 13.00 e anche alle 14.00 era
un continuo lavorare. Di sabato non si aveva nemmeno il tempo per
andare a mangiare e chi si sacrificava era sempre mio zio. Si doveva
mangiare a turno ma lo zio Divo restava in negozio ininterrottamente
ed io andavo a prendere “la ligàza”, il mangiare che preparava
mia zia, che si consumava tra un “taj, una berba, un'insavonadura e
un bcon”. La domenica era allietata, dopo il sacrificio mattutino,
dal pranzo che andavo a consumare in casa della mia zia Alba e per me
era “Natale”. Mia zia preparava cappelletti, tortelli, “la
mnèstra sòta”, “cunèi e poll”. Io sono stato adottato dai
miei zii.
Quando iniziai a frequentare l'Istituto
“Comandini” di Cesena aiutavo lo zio il sabato e la domenica sia
durante il periodo scolastico sia durante il periodo estivo e mi
gratificava con mille lire. Quello era il modo per riconoscermi il
sacrificio che stavo facendo.
Mio
zio mi stimava e mi voleva molto bene anche se non ha mai voluto
insegnarmi il mestiere e mi diceva: “Ascolta Glauco. Me di fiòl
annò e quant a smitarò la butèga stu vò la sarà la tua. Mo ant
voi insgnèr l'amstìr parchè um spis tu guènta scèv di cliènt”.
Questo per mostrarmi il suo affetto e quanto desiderasse per me un
avvenire diverso da quello di barbiere.
[..]
In
fin dei conti
Alla
fine della storia devo dire che sono stato fortunato: primo perché
sono ancora veggente, secondo perché il lavoro, soprattutto quello
pubblico, mi ha dato la possibilità di crearmi una famiglia e una
casa, terzo perché i garzonaggi, alla fin fine, sono stati positivi
e mi hanno formato il carattere ed i sacrifici e le privazioni mi
hanno aiutato a superare le difficoltà che si sono succedute nel
tempo. Il mio carattere è talmente “camaleontico” che se mi
siedo su un ramo non sono io che cambio colore ma è il ramo stesso
che si adatta. Come dipendente pubblico ho iniziato a lavorate
legando il somaro dove voleva il padrone ed ho finito legando il
padrone dove voleva il somaro.
mercoledì 14 settembre 2016
MEMORIE DI LAVORO, Loris venturi e don Mauro Petrini
Oggi è il turno di Loris e don Mauro.
Dall'introduzione di Loris Venturi
Brano tratto dalla narrazione di don Mauro Petrini
"UNA SCELTA DI VITA"
Sono
don Mauro Petrini, che all’anagrafe risulto Lodovico Petrini,
perché mio babbo, quando nacqui il 27 Luglio 1948, si presentò
negli uffici comunali e mi dichiarò col nome LODOVICO. Così si
chiamava il mio fratellino, nato nel 1943 e morto nel periodo della
guerra per complicazioni in seguito a tosse convulsa. Ma al ritorno a
casa le mie sorelle di 12, 13 e 15 anni dissentirono: “No!
Perché quel nome? Va a finire che muore anche Lui!”. E così
fui battezzato col nome di Mauro e sono sempre stato chiamato Mauro.
Ma a sei anni, quando andai a scuola in prima elementare, feci la
brutta scoperta: sul registro comparivo col nome di Lodovico e così
l’insegnante mi chiamò all’appello. Ricordo la mia sorpresa e il
divertimento dei miei compagni che allora mi prendevano in giro
canzonandomi col detto: “Lodovico, sei dolce come un fico”.
Infanzia
povera ma felice
Sono
nato e cresciuto in una famiglia numerosa, decimo di undici figli. Ho
vissuto la mia infanzia in campagna con lo stretto necessario per
vivere: con la coltivazione del piccolo poderino di cui era
proprietario, mio babbo ha fatto crescere con dignità tutti i suoi
figli. Poi ognuno ha fatto la sua strada e si è incamminato nella
vita. Eravamo una famiglia numerosa che viveva in campagna gustando
la gioia di una profonda libertà: si giocava insieme tutti, anche
coi vicini di casa, ai giochi più innocenti di questo mondo. Ricordo
Pum Libero… Sento di aver vissuto un’infanzia
molto bella e felice, anche se caratterizzata da una grande
ristrettezza economica. Negli anni Cinquanta si tirava ancora la
cinghia, soprattutto in una famiglia numerosa, anche se la vita
in campagna ha garantito sempre un po’ di pane ed un po’ di
companatico; di questo dobbiamo dire grazie al Signore. Si cresceva
con l’essenziale e le cose naturali: ci si accontentava e si
imparava ad accontentarsi di quel che si poteva godere. L’infanzia
e la fanciullezza si sono svolte in questo modo ed hanno influito
molto sulla mia formazione.
[..]
La
prima scelta
Come
primo ambito per il mio servizio sacerdotale chiesi al Vescovo di
andare in Germania per assistere gli emigrati italiani, insieme a mio
fratello sacerdote don Pier Paolo, che già da dieci anni era
missionario per gli emigrati. Ho fatto questa scelta perché già
durante le vacanze negli anni precedenti la mia ordinazione
sacerdotale ero andato più volte nelle missioni italiane dove
operava mio fratello: avevo visto il vasto campo di azione e mi
attirava la possibilità di mettere a servizio di questi fratelli più
bisognosi le mie giovani energie. Don Pier Paolo aveva la
responsabilità della missione italiana di Offenbach, comprendente un
vasto territorio popolato da circa 10.000 immigrati italiani nelle
immediate vicinanze di Francoforte sul Meno. È stato il mio primo
impatto con tutti i problemi che l’emigrazione italiana poneva in
quegli anni anche là in Germania: i problemi dell’accoglienza in
un Paese straniero, la difficoltà della comunicazione a causa della
scarsa conoscenza della lingua tedesca, i problemi del lavoro,
dell’abitazione, la riunificazione di tante famiglie, la difficoltà
per l’inserimento dei figli nella scuola, ecc… Per il problema
scolastico avevamo impostato una scuola bilingue che aiutasse pian
piano i bambini, da una parte a non perdere le radici della cultura
italiana e dall’altra nella comprensione della lingua e della
cultura tedesca, con lo scopo di un graduale e sempre maggiore
inserimento nel mondo tedesco. Per un po’ questa soluzione ha ben
funzionato; poi pian piano si è superata questa fase e si è operato
per un pieno inserimento nella scuola tedesca.
[..]
A
mo’ di conclusione, vorrei dire che non è stato facile
“confessarsi” in pubblico; tuttavia, spero che queste parole
siano descrittive del mio atteggiamento fondamentalmente “positivo”:
sono un prete contento della scelta fatta di donare la mia vita al
Signore e ai fratelli; so di avere tanti difetti, ma confido nella
benevolenza di tutti i cari meldolesi che, sicuramente, vorranno
continuare a sostenere il loro parroco nel cammino che, a Dio
piacendo, ancora ci sta davanti.
martedì 13 settembre 2016
MEMORIE DI LAVORO, Maris Senzani Pezzi e Piero Tassinari
Dedichiamo qualche pagina di questo blog ai Biografi Volontari e ai loro narratori cominciando da Maris e Piero.
Piero Tassinari è stato maestro elementare e ora è in pensione.
Dall'introduzione di Maris Senzani Pezzi
[..]Quando
penso alla scuola, in un tempo carico di distrazioni e momenti
di disturbo come il presente, credo che la vera rivoluzione sia
studiare. Mi piacerebbe una scuola che, fino al triennio delle
superiori, non si ponesse il problema dello scopo o dell’utilità
ma pensasse ad arricchire la mente, il cuore e lo spirito dei ragazzi
attraverso le grandi discipline della nostra cultura, quelle che
appaiono inutili e portano in altri mondi ma che fanno conoscere se
stessi, come la filosofia, letteratura, l’arte, la matematica, la
storia e con la psicologia, la sociologia e la logica. La possibilità
di perdere un po’ di tempo, imparare a riflettere, ad ascoltare,
sapersi fermare di fronte alla natura e alle proprie emozioni per
poterle scoprire e riconoscere. Un tempo gratuito senza risultati
concreti, utili ma che serve alla nostra crescita emotiva e
relazionale. In fondo l’intelligenza è relazione, la capacità di
convivere con l’alterità, andare oltre il noi stessi.[..]
Brano tratto dalla narrazione di Piero Tassinari
"SCUOLA DI VOLO PER PRINCIPIANTI"
La prima volta non si dimentica mai. O
no?
Ero
alla mia prima esperienza ed è sempre tutto più difficile. Adesso
mi sovviene che proprio nella scuola materna e in quella elementare
in un primo tempo l’energia dei bambini, la loro carica,
spaventavano anche un poco. Cioè il timore poteva essere quello di
non riuscire a gestire il gruppo classe perché si potevano creare
delle dinamiche e il maestro non ancora esperto nella gestione delle
relazioni umane potesse fare degli errori e quindi insomma …. Il
peggio del peggio che può succedere ad un insegnante è che gli
possa sfuggire di mano la gestione del gruppo dei ragazzi. Se i
ragazzi stessi capiscono questo …lo finiscono il maestro! Ricordo
quando si incontra per la prima volta una classe e quando si inizia
ad essere un insegnante. Devo dire che il cosiddetto primo giorno di
scuola, così emozionante per i bambini, soprattutto per quelli che
iniziano il percorso della scuola elementare, per me è sempre stato
un giorno di grande emotività. Anche quando sono arrivato all’ultimo
anno e avevo già la prospettiva dell’andare in pensione, sapevo
quindi che quell’anno che avevo iniziato sarebbe stato l’ultimo
del mio percorso di lavoro, quasi a maggior ragione, quel primo
giorno di scuola, un 13 o 14 settembre, non mi fece dormire, perché
ero preso dall’emozione.
[..]
Ricordo
che nella Pasqua di quell’anno, scrissi una storia buffa e la
proposi ai ragazzi. Era una storia di fantasia, dissi loro che,
comunque, sì esistevano gli alberi che producevano invece che le
pere le uova di pasqua. E rispetto alla loro sana incredulità dissi:
“Se non ci credete io vi porto a vederli. Bisogna saperli
riconoscere”. Ho lavorato come un matto per andare ad attaccare
le uova in un albero, là, in mezzo alla campagna, che non potessero
essere viste. Non solo. A questa strana caccia al tesoro che erano le
uova di Pasqua, chiesi di partecipare anche alla mia collega, sempre
un po’ riluttante rispetto a queste attività “alternative”.
Per cui, sì, alla fine venne anche lei ma aveva un grande punto
interrogativo al posto del naso. I bambini, alla vista delle uova
appese, sono rimasti immobili, in silenzio, a bocca spalancata. Poi,
tutti giù a ridere! Lo stesso anno mi travestii da Babbo Natale e
chiesi alla collega se mi teneva i miei bambini per un po’ di tempo
e se poi li accompagnava lungo un percorso che io avevo predisposto,
tipo caccia al tesoro, per venirmi a cercare. Ahimè fui scoperto da
una vecchietta lungo il tragitto, in quella stradella di campagna
dove io avevo progettato di passare per poi andarmi a nascondere.
Questa vecchietta cominciò ad urlare mescolando parole in dialetto e
in italiano “Uh iè babbi natali, uh iè babbi natali, curì,curì
che uh iè babbi natali!!!”.
[..]Miti
e mete
Io
avevo i miei miti. A parte tutti i testi che fanno parte del
patrimonio culturale richiesto all’insegnante per potersi proporre
come tale, si studiano pedagogisti, psicologi, poi c’erano dei miti
che per me erano gli archetipi dell’insegnante. Uno in particolare
non lo potrò mai dimenticare perché io cercavo di imitare il suo
modo di insegnare. Non so se questo signore sia ancora fra noi. Se
esiste il paradiso lui ha un posto d’onore. Questo signore è stato
un maestro elementare e uno scrittore, Mario Lodi, che ha scritto
tanto, tanti testi che io consideravo il mio Vangelo pedagogico.
Erano dei romanzi dedicati alla scuola e anche ai bambini. Uno di
questi è “C’è speranza se questo accadde a Vho (Vho di
Piadena)”, oppure “Il paese sbagliato”, poi il famoso “Cipì”
, scritto per i suoi scolari, che ha venduto non so mai quante copie
in tutte le scuole d’Italia. Un libro che raccontava della sua
esperienza da quando era bambino fino alle vicende della 2° guerra
mondiale, del fascismo, libro che ho continuato a leggere ai ragazzi
fino all’ultimo ciclo era il “Il corvo”. Comunque cercavo in
tutti i modi di fare scuola alla maniera di Mario Lodi. Ora mi
ritorna alla mente anche la “Scuola di Barbiana”, Don Milani,
grande personaggio. Quelli erano i miei eroi. E sulla falsa riga del
loro modo di organizzare l’istituzione educativa io cercavo di
muovermi. E devo dire la verità. Fino alla fine, sono passate le
riforme sulla mia testa, va bene, sono cambiati i modelli
organizzativi ma io sono rimasto fedele a quel modello.
![]() |
Il maestro Piero con i suoi alunni |
lunedì 12 settembre 2016
Altre foto del 10 settembre
Ancora un po' di foto della manifestazione di sabato 10 settembre 2016 in sala Nella Versari dove è stata presentato il terzo volume sulle memorie di lavoro.
LE FOTO SONO DI ZINO TAMBURRINO
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sergio giammarchi
domenica 11 settembre 2016
Notizie dal 10 settembre: MEMORIE DI LAVORO
da sx: Loris Venturi, Glauco Mercuriali, Ermen Bertaccini, Astrid Valeck, don Mauro Petrini, Ermes Fuzzi, Maris Senzani Pezzi |
Ci
sono sempre grandi emozioni in movimento quando una comunità di
narratori incontra una comunità di ascoltatori. È difficile
raccontarle, bisognerebbe essere presenti per viverle in prima
persona.
Storie
di vita personali che appartengono all'Umanità perché tutti -
uomini e donne – abbiamo vissuto e, spesso, le nostre esperienze
sono le esperienze di qualcun altro. Ci si riconosce simili. Ci si
sente vicini.
La
copertina di quest'ultimo volume (ultimo in ordine temporale) è
emblematica. Le foto che la compongono mostrano i protagonisti in
contesti di gruppo: la famiglia, i concittadini, gli amici, gli
alunni a significare che ognuno di noi è sempre in relazione. Ogni
volta che raccontiamo di noi, infatti, narriamo anche degli incontri
e di coloro che ci hanno formati.
Il
tema della ricerca è quello del lavoro e quelle narrate sono le
memorie di Ermenegilda Bertaccini, Glauco Mercuriali, don Mauro
Petrini e Piero Tassinari. Narrazioni che si muovono tra esperienze
esistenziali e formative che hanno portato ciascuno dei protagonisti
a scegliere la professione. Un elemento le accomuna: la passione,
tanto che il volume si apre con una citazione di Steve Jobs
L'unico modo di fare un ottimo lavoro è amare quello che fai. Se non hai
ancora trovato ciò che fa per te, continua a cercare, non fermarti.
Come capita per le faccende di cuore, saprai di averlo trovato non
appena ce l'avrai davanti. E, come le grandi storie d'amore,
diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continua a
cercare finché non lo troverai. Non accontentarti. Sii affamato. Sii
folle.
Passione che si manifesta anche
nell'affiatato gruppo dei Biografi Volontari che, anno dopo anno,
contribuisce ad arricchire la Mnemoteca di Meldola. La mnemoteca come “le attività dell'APS parolefatteamano meriterebbero di legarsi
a quell'importante volano rappresentato dalla L.U.A. (libera
Università dell'Autobiografia) il cui fondatore e direttore
scientifico Duccio Demetrio è stato graditissimo ospite, proprio a
Meldola lo scorso aprile nel corso dell'evento intitolato “In punta di penna”.
Il collegamento consentirebbe di entrare a far parte di una rete di
studi e ricerche a livello nazionale che aumenterebbe ancor di più
il valore, già di per sé enorme, delle pubblicazioni fin qui
realizzate e renderebbe meritata maggiore visibilità alla nostra
Città.”1
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