In tanti furono fucilati e in tanti trovarono la morte nella casa in cui erano stati rinchiusi e che venne data alle fiamme. Quasi tutta la popolazione venne sterminata, ben 64 persone su 82 abitanti. Un intero borgo, a circa 1000 mt di altitudine, con campi coltivati a patate e il bosco ad offrire sussistenza. Stiamo parlando di persone comuni, anziani...donne...bambini... il più giovane aveva 14 giorni, il più anziano 84 anni.
Non siamo in grado di portare ragioni o motivazioni, l'episodio è ancora aperto e senza risposte.
Il ricordo di quel giorno è rimasto indelebile nei pochi sopravvissuti ed è grazie a loro che è stato possibile conoscere quanto è accaduto. Non tutti però sono riusciti a narrare, qualcuno ha preferito il silenzio; tra questi ultimi c'è chi ha lasciato Tavolicci, chi è rimasto ma non ha mai detto nulla, chi non è mai voluto essere presente ad una commemorazione per il timore di dover raccontare ciò per cui non esistevano parole tanto era stato enorme il dramma. Chi è restato si è fatto custode della vita di chi non c'è più, ha testimoniato con la propria presenza.
Ricorda la Lowenthal [Lo strappo nell'anima, 2002] che anche il silenzio ha una sua memoria, fatta di gesti e di azioni trasmesse attraverso l'educazione. Il silenzio è una ferita che resta aperta, che non trova il modo di essere sanata. Nella trama della vita e della memoria individuale e collettiva è come se vi fosse una lacerazione e i lembi del tessuto non possono essere riuniti e ricuciti, manca proprio un pezzetto di tessuto. L'ordito va intrecciato nuovamente e questo è possibile attraverso le storie. In questo risiede la grande opera compiuta dai biografi dell'APS parolefattemano di Meldola con il volume “Vivere a Tavolicci dopo la strage del 22 luglio 19441”.
Delle testimonianze raccolte solo una è di un testimone primario, le altre sono state donate da coloro che sono nati dopo la strage. Attraverso i loro racconti si tesse quella trama capace di riunire i lembi della memoria. A questo serve la narrazione dei testimoni secondari, cioè di coloro che sono nati dopo gli eventi accaduti. La memoria vissuta diviene memoria condivisibile.
In questa tessitura trova posto la casa in cui è avvenuto l'eccidio, che a lungo ha portato i segni della tragedia avvenuta, e che è stata restaurata e trasformata in museo.
Essere rimasti a Tavolicci o averlo scelto come luogo di vita significa raccogliere il testimone e divenire custode a propria volta. Leggendo le storie di vita raccolte ci si rende conto della forte volontà che guida chi vive in questo luogo, ne emergee l'immagine di eroi quotidiani.
Non siamo in grado di portare ragioni o motivazioni, l'episodio è ancora aperto e senza risposte.
Il ricordo di quel giorno è rimasto indelebile nei pochi sopravvissuti ed è grazie a loro che è stato possibile conoscere quanto è accaduto. Non tutti però sono riusciti a narrare, qualcuno ha preferito il silenzio; tra questi ultimi c'è chi ha lasciato Tavolicci, chi è rimasto ma non ha mai detto nulla, chi non è mai voluto essere presente ad una commemorazione per il timore di dover raccontare ciò per cui non esistevano parole tanto era stato enorme il dramma. Chi è restato si è fatto custode della vita di chi non c'è più, ha testimoniato con la propria presenza.
Ricorda la Lowenthal [Lo strappo nell'anima, 2002] che anche il silenzio ha una sua memoria, fatta di gesti e di azioni trasmesse attraverso l'educazione. Il silenzio è una ferita che resta aperta, che non trova il modo di essere sanata. Nella trama della vita e della memoria individuale e collettiva è come se vi fosse una lacerazione e i lembi del tessuto non possono essere riuniti e ricuciti, manca proprio un pezzetto di tessuto. L'ordito va intrecciato nuovamente e questo è possibile attraverso le storie. In questo risiede la grande opera compiuta dai biografi dell'APS parolefattemano di Meldola con il volume “Vivere a Tavolicci dopo la strage del 22 luglio 19441”.
Delle testimonianze raccolte solo una è di un testimone primario, le altre sono state donate da coloro che sono nati dopo la strage. Attraverso i loro racconti si tesse quella trama capace di riunire i lembi della memoria. A questo serve la narrazione dei testimoni secondari, cioè di coloro che sono nati dopo gli eventi accaduti. La memoria vissuta diviene memoria condivisibile.
In questa tessitura trova posto la casa in cui è avvenuto l'eccidio, che a lungo ha portato i segni della tragedia avvenuta, e che è stata restaurata e trasformata in museo.
Essere rimasti a Tavolicci o averlo scelto come luogo di vita significa raccogliere il testimone e divenire custode a propria volta. Leggendo le storie di vita raccolte ci si rende conto della forte volontà che guida chi vive in questo luogo, ne emergee l'immagine di eroi quotidiani.
Vivere a Tavolicci, almeno per le comodità cui siamo abituati, non è semplice. È decentrata, distante dai servizi, dalle sedi di lavoro e il clima è quello tipico della montagna.
Frequentare la scuola, per il solo bambino in età scolare che vi abita, significa due ore di percorrenza in scuolabus ogni giorno, e per gli adulti lasciare la casa alle 4:00 del mattino per rientrarvi che è già buio. D'inverno bisogna fare i conti con la neve e il ghiaccio. Eppure questo luogo ha un fascino che sovrasta ogni possibile fatica. È immerso nella natura e la pace che vi regna non fa certo rimpiangere il ritmo sincopato e l'inquinamento delle nostre città. Qui il tempo ha un altro valore come anche il rapporto con l'ambiente. Negli anni '90 i residenti hanno provato a rendere nuovamente produttivo il territorio costituendosi in cooperativa. Non ha funzionato come desideravano e la cura per la terra richiede ancora oggi il lavoro presso terzi, però c'è un progetto interessante che si sta concretizzando e che affianca quanti hanno già deciso di trasferirsi tra queste montagne. Lo si può trovare nel racconto di due ragazzi, marito e moglie, i più giovani tra coloro che hanno narrato: sono i figli, dei figli, dei figli...gli ultimi, in ordine di tempo, ad aver raccolto il testimone e a farsi custodi della memoria di questo luogo.
Frequentare la scuola, per il solo bambino in età scolare che vi abita, significa due ore di percorrenza in scuolabus ogni giorno, e per gli adulti lasciare la casa alle 4:00 del mattino per rientrarvi che è già buio. D'inverno bisogna fare i conti con la neve e il ghiaccio. Eppure questo luogo ha un fascino che sovrasta ogni possibile fatica. È immerso nella natura e la pace che vi regna non fa certo rimpiangere il ritmo sincopato e l'inquinamento delle nostre città. Qui il tempo ha un altro valore come anche il rapporto con l'ambiente. Negli anni '90 i residenti hanno provato a rendere nuovamente produttivo il territorio costituendosi in cooperativa. Non ha funzionato come desideravano e la cura per la terra richiede ancora oggi il lavoro presso terzi, però c'è un progetto interessante che si sta concretizzando e che affianca quanti hanno già deciso di trasferirsi tra queste montagne. Lo si può trovare nel racconto di due ragazzi, marito e moglie, i più giovani tra coloro che hanno narrato: sono i figli, dei figli, dei figli...gli ultimi, in ordine di tempo, ad aver raccolto il testimone e a farsi custodi della memoria di questo luogo.
Astrid Valeck
1Ricerca in collaborazione e per conto dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età contemporanea di Forlì-Cesena e Ass. Amici della casa di Tavolicci.
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