Invito alla lettura a cura di Astrid
Valeck
Astrid
Valeck-Ermes Fuzzi, L'eredità
di Natalia, Il Ponte
Vecchio, Cesena, 2008
Romanzo
per una pedagogia della memoria.
Ha
ricevuto numerosi premi letterari
Scrivo
queste righe su invito di una carissima amica, Loretta Buda e del
libro che ha recensito pochi giorni orsono, perché le vicende della
Flem, in parte, rispecchiano il mio sentire per le vicende storiche
della mia famiglia. E perché anche io ho avvertito l'esigenza di
dare forma a questo sentire attraverso la scrittura.
Alcuni
anni fa, esattamente nel 2008, Ermes Fuzzi ed io abbiamo scritto un
romanzo.
Una
scrittura a quattro mani non è affare da poco, ma è una delle
esperienze più entusiasmanti che io ricordi. Sia Ermes che io
avevamo un retroterra da conoscere e da narrare, e da lasciare in
dono ai nostri figli. Qualcosa che era apparso improvvisamente nelle
nostre vite quando eravamo già grandi.
È
una grande opportunità, per uno scrittore, poter raccontare -in
prima persona-come è nato il romanzo che ha scritto e cosa lo ha
guidato e supportato.
Oggi
potrei farlo a ritroso, con la ricchezza di quanto è avvenuto in
questi otto anni. Però so di avere da conto, in fitti quaderni e
lettere, l'evoluzione di questa nascita.
È
così che ho trovato una lettera che il 22 settembre 2007 spedii al
circolo di scrittura autobiografica a distanza di Anghiari. Il
romanzo sarebbe stato pubblicato solo alla fine di quell'anno,
uscendo tra i titoli de Il Ponte Vecchio a gennaio 2008.
Una
scrittura in corso d'opera, quasi una pagina di diario, per
raccontare l'evoluzione di una narrazione che stava prendendo la
forma di un romanzo.
È
da quella lettera che prendo lo stralcio che qui accludo, per
ricordare il passato da cui provengo e che fare memoria, nel giorno
della memoria, e in qualsiasi giorno dell'anno, è un atto di
testimonianza che aiuta tutti a non dimenticare, soprattutto quando i
testimoni storici rimangono in pochi. La mia storia, la storia di
Ermes, non è una storia vissuta in prima persona, ma noi siamo i
testimoni dei testimoni e il nostro compito è quello di passare il
testimone.
“L'idea
iniziale era quella di fare un film.
Volevo
scrivere e realizzare un film (e arriverò, prima o poi, a farlo) e
invece ho scritto un romanzo.
Un
romanzo al posto di un film.
Come
sarà mai che una sceneggiatura abbia così radicalmente cambiato
forma, si fa presto a dirlo.
Mi
sono persa, volutamente persa tra le pieghe dei personaggi e le
evocazioni dei luoghi.
La
mia mano voleva andare in una direzione, il mio pensiero interiore in
un altra. E ho dovuto prestargli ascolto.
Ho
raccontato ciò che i miei occhi interiori percepivano e traducevano
in immagini.
Ho
passato anni a riempirmi di letture fino a saturare ogni mia
percezione, c'è stato spazio per ogni emozione, ogni dettaglio, ogni
biografia, anche ogni fandonia. Il malessere e la sofferenza che ho
provato erano il sintomo di un lavorio interiore che accostava
paradossi e che entrava in conflitto con se stesso, perché il quadro
“non tornava”. La cosiddetta quadratura del cerchio non era
possibile.
La
sensazione era quella di limarsi il cervello, ma le forma non
potevano combaciare, restavano distinte e ogni volta che provavano ad
avvicinarsi provocavano scintille.
Si
dice che essere creativi significa trovare soluzioni nuove a problemi
vecchi.
A
certi silenzi ostinati, le fonti, la ricerca, gli studi dei
differenti autori possono solo fornire un'idea sfocata. Scrivere
questo romanzo è la risposta creativa ad un grande vuoto “pieno”.
Rappresenta un modo per cambiare punto di osservazione e saper
cogliere la ricchezza che si nasconde dietro certi silenzi e dentro
spazi che si presume siano vuoti, ma in realtà non lo sono ed è
proprio focalizzando l'attenzione su di essi che il quadro si
illumina e può essere visto.
A
distanza di tempo, mentre leggevo un libro ho trovato questa
citazione che sintetizza bene il mio pensiero: “A
un certo stadio del processo creativo
l'opera, che si tratti di
un quadro o di una poesia o di una teoria scientifica, assume una
vita propria e trasmette le proprie esigenze al suo creatore. Essa si
separa da lui e fa appello al materiale che giace nel suo
subcosciente. Il creatore deve quindi sapere quando è il caso di
smettere di imprimere una direzione al proprio lavoro e lasciarsi
invece guidare da lui. Egli deve in breve sapere quando è probabile,
che la sua opera sia più saggia di lui”. (Chiedo scusa, ma non ho
tenuto nota dell'autore e del libro).
La
mia non è stata una scrittura organizzata sin da subito, anzi è
vero il contrario. Le pagine scaturivano dalla penna sulla scia di
una spinta interiore che mi pareva sconclusionata. Tante immagini
diverse ed emozionalmente intense.
Pagine
scaturite, spesso, con estrema fatica, quasi che ciò che avevo da
raccontare premesse per uscire, ma nel contempo non potesse farlo.
Normalmente, rimossi ostacoli che si rivelavano leggeri come un velo
ma all'apparenza pesanti come un muro, le parole correvano fluide e
inarrestabili sulla carta.
Ci
sono ancora delle pagine che vorrebbero esprimere più di quanto
dicono, ma non riesco a colmare quei vuoti. Forse più avanti, o
forse resterà così.
Ho
fatto un lavoro disumano di ricostruzione e liberazione interiore, e
una ricerca storica puntuale.
Abbiamo
espresso questo cammino (mio e di Ermes) attraverso una modalità
comunicabile anche ad altri -ecco il perché della forma del romanzo-
affinché questo frammento di memoria che non appartiene solo a me (a
noi) ma presumo alle generazioni a venire, diventi un po' meno
memoria individuale e un po' più memoria collettiva.
La
“lezione” che ho trovato e che mi è stata lasciata desidererei
divulgarla quanto più possibile – da qui l'idea iniziale di
scrivere una sceneggiatura per il cinema; le storie raccontate
attraverso le immagini sono fruite da un numero elevato di persone,
incontrano più persone della parola scritta – ma anche un romanzo,
scritto con un linguaggio semplice (quasi narrato sottovoce) ,
costruito come un poliziesco, con un intreccio sorprendente, magari
letto ad alta voce, con descrizioni che aiutano ad evocare immagini e
denso di dialoghi dovrebbe, a mio avviso, stuzzicare a pensare, a
interrogarsi, a conoscere.”
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