Recensione a cura di Loretta Buda
Lydia Flem, Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto, 2005
....e scrivo quello che non saprei mai dire a nessuno
Primo Levi
Ho
seguito un consiglio di lettura di Ada Ascari convinta che la lettura
del libro: “Come ho svuotato la casa dei miei genitori” potesse
orientarmi nel riordino dei materiali scolastici stipati nell’antica
cassapanca della nonna, contenitore stracolmo di documenti riposti con
cura alla fine di ogni anno scolastico (anni che sono diventati tanti
anche per effetto della riforma Fornero). Ma dover scegliere fra
quadernini e quadernoni, fascicoli operativi e formativi, dispense
varie, era penoso. Rivedere i foglietti di carta strappata con i disegni
approssimativi dei bambini, rileggere i loro messaggi scritti con
lettere spaiate e frasi inconcluse, hanno risvegliato un’acuta nostalgia
e attenuato la smania persecutoria di riordino. Quindi ho risistemato
tutte “le mie cose” con la cura di sempre nella piena consapevolezza di
aver bisogno ancora della loro, silenziosa e composta, presenza.
Questo lungo preambolo giustifica solo la motivazione che soggiace alla scelta del libro, ma lo scopo della mia riflessione è la sorpresa di scoprire, fra le sue pagine, una storia che l’autrice definisce con dolorosa chiarezza solo nella fase di “spoglio” della casa. Documentato, tra le carte ritrovate nei cassetti, le si rivela il tragico destino dei nonni e degli zii durante il nazismo.
Questo lungo preambolo giustifica solo la motivazione che soggiace alla scelta del libro, ma lo scopo della mia riflessione è la sorpresa di scoprire, fra le sue pagine, una storia che l’autrice definisce con dolorosa chiarezza solo nella fase di “spoglio” della casa. Documentato, tra le carte ritrovate nei cassetti, le si rivela il tragico destino dei nonni e degli zii durante il nazismo.
(...)“Perché,
tra tante altre cose possibili, ho avuto la tentazione di aprire questa
valigetta di cuoio patinata dal tempo? Caso o intuizione. Conteneva
fasci di lettere di cui ignoravo l'esistenza. Scritte, in tedesco, dalla
madre di mio padre e indirizzate a lui, in collegio, quando era un
giovanissimo adolescente, nel 1938, parlavano di un tempo che mio padre
non aveva mai evocato in mia presenza. Di questa nonna russa, deportata e
assassinata dai nazisti nel 1942, non sapevo niente.”.(...) E adesso
toccava a me, da sola, infrangere questo tabù. Quello che mi avevano
nascosto era peggio di quanto avevo letto o ascoltato? Quello che ne
sapevo, non potevo saperlo, non avevano voluto che lo sapessi. Era un
sapere proibito. Macchiato d'orrore, di vergogna, di ricusazione, un
sapere chiuso nel ghiaccio, pietrificato.(...)"
"Ricordare
non è soffulgere di rosa" scrive Nino Pedretti, non sempre il ricordo
si avvolge di tenerezza, spesso, come in questo caso, ricordare “è
scavare con la mente corrosa”. Le scoperte che gradualmente la figlia
faceva la lasciavano sbigottita; rovistando, con pudore, tra i ricordi
personali dei genitori emergevano dolori mai espressi, ferite mai
sanate.
"(...) A questo passato inesprimibile, a questo susseguirsi di traumi vissuti prima della mia nascita, che cosa potevo opporre se non la ricerca ostinata, brancolante, delle parole perdute? Per diventare la loro «libera» erede, dovevo rompere l'assolutezza di un silenzio di cui ero ostaggio da sempre. Scrivere diventava un compito urgente. Attraverso l'elaborazione della lingua, la parte indicibile del loro passato non mi avrebbe più impedito di vivere la mia vita, separata dalla loro. Non sarei più stata il recinto passivo del loro sconforto e del loro mutismo, ma l'erede attiva della mia filiazione.”
"(...) A questo passato inesprimibile, a questo susseguirsi di traumi vissuti prima della mia nascita, che cosa potevo opporre se non la ricerca ostinata, brancolante, delle parole perdute? Per diventare la loro «libera» erede, dovevo rompere l'assolutezza di un silenzio di cui ero ostaggio da sempre. Scrivere diventava un compito urgente. Attraverso l'elaborazione della lingua, la parte indicibile del loro passato non mi avrebbe più impedito di vivere la mia vita, separata dalla loro. Non sarei più stata il recinto passivo del loro sconforto e del loro mutismo, ma l'erede attiva della mia filiazione.”
Lydia
ha intrapreso, la via della scrittura, il solo modo che le permettesse
di diventare la “libera” erede dei suoi genitori. Scrivendo ha
cominciato a esplorare il rapporto avuto con loro, con i sentimenti e
con la realtà che aveva vissuto, riuscendo così a superare anche
l’assolutezza del distacco.
"Lo
sgomento che mi abitava era più intenso perché era il doppio del loro
stesso sgomento che non avevano saputo fronteggiare, elaborare,
digerire, trasformare,(...) Ero cresciuta senza potermi appoggiare a
loro, assorbendo le loro angosce e i loro incubi. Niente veniva mai
detto, al contrario, facevamo come se fossimo una piccola famiglia senza
storia: papà, mamma, la bambinaia e io, e invece erano in gioco Hitler,
Stalin, la Storia e noi."
Collegando
in una narrazione quei frammenti di esistenze l’autrice ha conferito
“senso storico e significato morale” ad una vicenda familiare che si
apre sullo scenario della Storia maiuscola; è riuscita a contrastare,
con “la ricerca ostinata e brancolante, delle parole perdute” la
smemoratezza di un’epoca, la nostra, che appare quella della precarietà e
delle emozioni senza memoria. A questo punto, anche se l’orrore è grande e non vuole essere tramandato non si può non ricordare una data: 27 gennaio, giornata della memoria. Un giorno che puntualmente ci chiede di dare una possibilità alla pace e di riflettere sul valore della memoria storica nel presente, anche alla luce dei tanti e tragici avvenimenti cui assistiamo quotidianamente.
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