sabato 23 gennaio 2016

"RICORDARE NON E' SOFFULGERE DI ROSA "

Recensione a cura di Loretta Buda
Lydia Flem, Come ho svuotato la casa dei miei genitori, Archinto, 2005
                                                                                 ....e scrivo quello che non saprei mai dire a nessuno                                                                                                                                               Primo Levi
Ho seguito un consiglio di lettura di Ada Ascari convinta che la lettura del libro: “Come ho svuotato la casa dei miei genitori” potesse orientarmi nel riordino dei materiali scolastici stipati nell’antica cassapanca della nonna, contenitore stracolmo di documenti riposti con cura alla fine di ogni anno scolastico (anni che sono diventati tanti anche per effetto della riforma Fornero). Ma dover scegliere fra quadernini e quadernoni, fascicoli operativi e formativi, dispense varie, era penoso. Rivedere i foglietti di carta strappata con i disegni approssimativi dei bambini, rileggere i loro messaggi scritti con lettere spaiate e frasi inconcluse, hanno risvegliato un’acuta nostalgia e attenuato la smania persecutoria di riordino. Quindi ho risistemato tutte “le mie cose” con la cura di sempre nella piena consapevolezza di aver bisogno ancora della loro, silenziosa e composta, presenza.
Questo lungo preambolo giustifica solo la motivazione che soggiace alla scelta del libro, ma lo scopo della mia riflessione è la sorpresa di scoprire, fra le sue pagine, una storia che l’autrice definisce con dolorosa chiarezza solo nella fase di “spoglio” della casa. Documentato, tra le carte ritrovate nei cassetti, le si rivela il tragico destino dei nonni e degli zii durante il nazismo.
(...)“Perché, tra tante altre cose possibili, ho avuto la tentazione di aprire questa valigetta di cuoio patinata dal tempo? Caso o intuizione. Conteneva fasci di lettere di cui ignoravo l'esistenza. Scritte, in tedesco, dalla madre di mio padre e indirizzate a lui, in collegio, quando era un giovanissimo adolescente, nel 1938, parlavano di un tempo che mio padre non aveva mai evocato in mia presenza. Di questa nonna russa, deportata e assassinata dai nazisti nel 1942, non sapevo niente.”.(...) E adesso toccava a me, da sola, infrangere questo tabù. Quello che mi avevano nascosto era peggio di quanto avevo letto o ascoltato? Quello che ne sapevo, non potevo saperlo, non avevano voluto che lo sapessi. Era un sapere proibito. Macchiato d'orrore, di vergogna, di ricusazione, un sapere chiuso nel ghiaccio, pietrificato.(...)"
"Ricordare non è soffulgere di rosa" scrive Nino Pedretti, non sempre il ricordo si avvolge di tenerezza, spesso, come in questo caso, ricordare “è scavare con la mente corrosa”. Le scoperte che gradualmente la figlia faceva la lasciavano sbigottita; rovistando, con pudore, tra i ricordi personali dei genitori emergevano dolori mai espressi, ferite mai sanate.
"(...) A questo passato inesprimibile, a questo susseguirsi di traumi vissuti prima della mia nascita, che cosa potevo opporre se non la ricerca ostinata, brancolante, delle parole perdute? Per diventare la loro «libera» erede, dovevo rompere l'assolutezza di un silenzio di cui ero ostaggio da sempre. Scrivere diventava un compito urgente. Attraverso l'elaborazione della lingua, la parte indicibile del loro passato non mi avrebbe più impedito di vivere la mia vita, separata dalla loro. Non sarei più stata il recinto passivo del loro sconforto e del loro mutismo, ma l'erede attiva della mia filiazione.”
Lydia ha intrapreso, la via della scrittura, il solo modo che le permettesse di diventare la “libera” erede dei suoi genitori. Scrivendo ha cominciato a esplorare il rapporto avuto con loro, con i sentimenti e con la realtà che aveva vissuto, riuscendo così a superare anche l’assolutezza del distacco. 
"Lo sgomento che mi abitava era più intenso perché era il doppio del loro stesso sgomento che non avevano saputo fronteggiare, elaborare, digerire, trasformare,(...) Ero cresciuta senza potermi appoggiare a loro, assorbendo le loro angosce e i loro incubi. Niente veniva mai detto, al contrario, facevamo come se fossimo una piccola famiglia senza storia: papà, mamma, la bambinaia e io, e invece erano in gioco Hitler, Stalin, la Storia e noi."
Collegando in una narrazione quei frammenti di esistenze l’autrice ha conferito “senso storico e significato morale” ad una vicenda familiare che si apre sullo scenario della Storia maiuscola; è riuscita a contrastare, con “la ricerca ostinata e brancolante, delle parole perdute” la smemoratezza di un’epoca, la nostra, che appare quella della precarietà e delle emozioni senza memoria.
A questo punto, anche se l’orrore è grande e non vuole essere tramandato non si può non ricordare una data: 27 gennaio, giornata della memoria. Un giorno che puntualmente ci chiede di dare una possibilità alla pace e di riflettere sul valore della memoria storica nel presente, anche alla luce dei tanti e tragici avvenimenti cui assistiamo quotidianamente.

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