Gli occhi gli diventavano
grandi grandi.
Dio, perfino i bambini!
Sempre e dovunque i bambini
sacrileghe vittime
dei nostri orgogli di adulti.
Ma forse tutti i soldati
sono bambini:
i soldati non sanno
non devono sapere,
è tolta loro la ragione.
David Maria
Turoldo
Le
notizie che arrivano dalla Russia e dall’Ucraina ci fanno ricadere in uno stato
d’ansia che speravamo di archiviare. HISTORIA MAGISTRA VITAE dichiarava Cicerone, ma considerando gli scenari di
guerra che si sono dispiegati in questi
giorni ritengo sia il caso di ripassare, e di rileggere scrupolosamente la storia in tutte “le sue pieghe”. Ancora turbati dalla
pandemia oggi siamo sconvolti da una guerra che ci cinge con un assedio di
morte e fa fare un balzo indietro alla nostra civiltà .
Con l’eco di spari lontani e le voci concitate dei giornalisti radiofonici ho ripreso in mano un libro che non ho mai dimenticato: “Gli
ultimi testimoni” di Svetlana
Aleksievič, premio Nobel della letteratura nel 2015 .
Se il libro, alla prima lettura mi turbò oggi mi sconvolge, perché il racconto dei bambini e delle bambine sopravvissuti rende ancora più assurda e straniante ogni idea di guerra.
L’Aleksievič
riporta i racconti dei bambini e delle
bambine che, nel 1941, furono testimoni
dell’assedio della città Bielorussa di Minsk da parte delle
dalle truppe tedesche.
L’intera via era ridotta in
cenere. Tra le fiamme erano morti vecchie, vecchi e molti bambini piccoli che
non erano partiti insieme a tutti gli altri: si pensava che il nemico non
avrebbe osato attaccarli. Il fuoco non aveva risparmiato nessuno.
Era il 1985, l’anno in cui “Gli ultimi testimoni
“veniva pubblicato, e immediatamente censurato dal regime sovietico. Il racconto
della guerra fatto dai bambini/e , era troppo cruento e la ferita originata dalla spietata ferocia dell’UOMO troppo viva.
Zenja
Bel'kevic raccontava della mamma che era così bella e non capiva perché le avessero
sparato in faccia, e perché l’avessero seppellita nella sabbia, con tutti quei
coleotteri.
Zenja
Bel'kevic
Poi
ricordo un ciclo scuro e un aereo nero. La nostra mamma giaceva accanto al
marciapiede con le braccia spalancate. La supplicavamo di alzarsi, ma lei non
si alzava. Non si tirava più su. I soldati hanno avvolto la mamma in un sacco e
l'hanno seppellita nella sabbia, lì dove si trovava. Noi, supplicando i
soldati, gridavamo: "Non seppellite la nostra mamma nella fossa. Quando si
sveglia, ce ne andiamo via con lei." La sabbia brulicava di grossi
coleotteri... Non mi capacitavo di come la mamma avrebbe potuto vivere
sottoterra con loro. Come avremmo fatto a ritrovarla? A riunirci di nuovo? Chi
l'avrebbe detto al nostro papa? (…)
Paesaggi
devastati, interni familiari sguarniti , fotografie di una quotidianità sfortunatamente
trasformata da una parola che fino a poco prima aveva un significato distante eastratto.
IN questi giorni, al trauma aperto dalla pandemia, si inserisce anche la tragedia di una guerra, che si infiltra nelle case, nelle famiglie, che
allontana, divide, uccide, abbandona. Dal
1941 al 2022 nulla è cambiato . Caino è sempre fa noi e ci avverte
:
“sono
io il mistero
del
male che ti attrae
e con cui ti batti”
Ci rammenta che,
ancora una volta , la storia parla di lui, e di un’umanità che soccomberà per mano della propria insipienza
Il libro ci fa riflettere perché è raccontato dallo sguardo di chi ha subito la guerra senza avere nemmeno gli strumenti per capire
quello che stava accadendo, di chi si è visto rubare l'infanzia e che, con
disarmante spontaneità abbozza, l’affresco
più difficile di un’epoca.
Katja
Korotaeva ha 13 anni e della guerra conosce l’odore. Ricorda il profumo
dei lillà e dei ciliegi, ricorda suo fratello in partenza per il fronte e i
soldi che lascia alla madre per comprarle un cappotto nuovo.
"La guerra! La guerra!" E l'indomani alle
sette del mattino mio fratello maggiore ha ricevuto l'ordine di
mobilitazione dal commissariato militare. Durante la giornata ha fatto un salto al
lavoro, dove ha regolato la sua situazione e ha ricevuto la paga. È tornato a casa con questo
denaro e ha detto alla mamma: "Parto per il fronte, là non avrò bisogno di niente. Tieni questi soldi. Compra
un cappotto nuovo a Katja. "
Sognavo che non appena fossi arrivata in settima e fossi diventata capoclasse
mi sarei fatta fare un cappotto blu con
un colletto di astrakan grigio. E lui lo sapeva...
Vivevamo
in ristrettezze, il bilancio familiare era modesto... Ma la mamma comunque mi avrebbe comprato il cappotto dato
che mio fratello l'aveva chiesto. Però non ha fatto in tempo...
A Minsk
erano cominciati i bombardamenti. Io e la mamma ci eravamo trasferite nella
cantina dei vicini.
“
“Nataša
Golik ha cinque anni e durante la guerra ha imparato a pregare
Taisa
Nasavetnikova e la sua fuga insieme alla madre, la paura di
morire e la salvezza grazie a un medico militare, le sue braghe rosse e i libri
da grandi. I sogni dei bambini, le scarpe fatte a mano, i carri armati, la
palude e i giorni interminabili, volti, rumori, odori di anni strappati
all’infanzia di tanti bambini e ragazzi che l’hanno attraversata...”
Ancora
Katja Korotaeva,
A Minsk
erano cominciati i bombardamenti. Io e la mamma ci eravamo trasferite nella
cantina dei vicini. C'era un gatto che amavo, un gatto molto selvatico che non
si era mai allontanato dal cortile, ma quando hanno cominciato a bombardare e
sono corsa fuori per andare dai vicini, il gatto mi ha seguito. Cercavo di
scacciarlo. Gli dicevo di tornare a casa, ma continuava a seguirmi. Anche lui
aveva paura di restare da solo. Le bombe tedesche quando cadevano mandavano un
sibilo particolare. (...) Nella cantina insieme a noi c'era il figlio di
quattro anni dei vicini. Lui non piangeva per i bombardamenti, ma gli occhi gli
diventavano grandi grandi.
Dapprima
erano bruciate le singole case, e poi l'intera città era stata divorata dagli
incendi. Ci piaceva guardare il fuoco e i falò, ma è terribile veder bruciare
una casa. Le fiamme fuoriescono da tutti i lati e il cielo e le strade sono
invasi dal fumo. E in certi punti il bagliore accecante del fuoco è
insostenibile... Ricordo tre finestre spalancate di una casa di legno, sui suoi
davanzali erano rimasti dei rigogliosi cactus. Gli abitanti della casa ormai se
n'erano andati, ma i cactus continuavano a fiorire... Era come se non fossero
dei fiori rossi, ma delle fiamme vive. Fiori incandescenti. Fuggivamo dove potevamo...Per
strada nei villaggi ci davano del pane e del latte per nutrirci, di più non
avevano. E noi eravamo senza soldi. Io ero fuggita di casa con uno scialletto e
mia mamma chissà perché con addosso un cappotto invernale e ai piedi delle
scarpe con il tacco alto. Ci davano da mangiare gratis, nessuno neppure
accennava a essere pagato. C'erano fiumi di profughi. (…) e sempre e ovunque,
i bambini.
Loretta Buda