domenica 14 febbraio 2016

Un libro per un centenario :DONNE NELLA GRANDE GUERRA.

 "Seppelliamo il dolore sotto la lingua" fa dire Francesca Soncin [1] a   Maria Plozner Mentil; un dolore che fa rima con valore, parola che, a sua volta, diventa espressione degli eroismi silenziosi di cui, da sempre, sono state capaci le donne: combattenti del focolare che lasciavano il conforto del fuoco domestico per affrontare valorosamente “ il rosso baleno della guerra”.

Loretta Buda


UN CENTENARIO
Il 15 febbraio 1916 mentre, assieme ad un’amica, si stava riposando, Maria Plozner Mentil, venne colpita da un cecchino austriaco; trasportata all'ospedale spirò il giorno dopo. Nel 1997 fu insignita della medaglia d'oro al valor militare.
“Esili come brezza tra venti di guerra, le portatrici carniche, pagarono talvolta a caro prezzo le loro scelte”; furono quelle donne che nel corso della Prima Guerra Mondiale operarono, lungo il fronte della Carnia, trasportando, con le loro gerle, rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane, dove molto spesso combattevano i loro uomini nei reparti alpini. Erano dotate di un apposito bracciale rosso con stampigliato il numero del reparto dal quale dipendevano e percorrevano anche più di 1000 metri di dislivello portando sulle spalle gerle di 30–40 kg. Ogni viaggio veniva loro pagato una lira e cinquanta centesimi, pari a 3,50 euro. La loro età variava dai 15 ai 60 anni.
(...)Seppelliamo il dolore sotto la lingua e nella gerla portiamo munizioni e bombe a mano.

Una calza a salire, una a scendere. Qualunque peso avessi nella gerla. Col fischio delle pallottole che trapassa l'anima. Eppure la prima linea, da qui, sotto i miei zoccoli che fanno scricchiolare la neve, sembra così lontana. Ma i piedi sanno la strada. Un'orma dopo l'altra, il mio marchio nel bianco. Uno due tre quattro. Non conto i passi, ma i ferri da calza. Li sfioro con la punta delle dita gelate, quasi ad assicurarmi che siano ancora tra le mie mani. Mi ci aggrappo come a una certezza, l'unica che mi è rimasta: una calza a salire e una a scendere.(...)

Oggi a scendere avevo la gerla zeppa di biancheria, intrisa di pidocchi e del sudore gelido di chi ha visto in faccia la morte, sorpreso che lei, all'ultimo, abbia girato la testa dall'altra parte. Un brivido che fa aggricciare la pelle sulla schiena e i peli restano su, dritti come gli abeti dei nostri boschi. Quel terrore nemmeno l'acqua bollente potrà lavarlo via.(...)

La cosa che patisco di più è il ritorno, se c'è un ferito da portare a valle. Lo carichiamo in due quel poveretto, una davanti e una dietro. Le mani che per ore stringono la barella. E quando non posso muoverle, quando non mi corrono sui ferri, mi pare di essere in trappola. Di non poter pensare ad altro che al presente. A questa guerra che forse non finirà mai. E se per caso inciampo con gli occhi in quelli del soldato che sto portando, spero che sul fondo dei miei trovi ancora un tocco di cielo, la luce residua di quando da bambina mi arrampicavo su un albero e orgogliosa guardavo l'azzurro. O che ci legga una cosa qualunque, sua madre che gli da il buongiorno o la morosa che lo saluta dalla finestra. (...)[1]

 




   Adattamento da  Francesca Sancin
AA.VV, Le donne nella grande guerra , ed Il MULINO, 2015

 

 










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