giovedì 23 novembre 2017

...e... non vissero felici e contente




... e... non vissero felici e contente 

Loretta Buda 


Riversarmi dal ventre di mia madre è stato il primo atto di sparizione, imparare a rimpicciolire per una famiglia che vorrebbe invisibili le figlie è stato il secondo(...) [1]



E’ martedì pomeriggio, sono alla Ceccarelli seduta accanto al tavolo delle novità. Prendo distrattamente in mano un libro la cui copertina spicca vivacemente sulla “debolezza cromatica” delle pubblicazioni che lo affiancano. Mi colpisce l’immagine della rosa rossa che, sfrangiandosi, sparge  frammenti di corolla su uno sfondo nero;  ad attirare la mia  attenzione però è il sottotitolo: ESERCIZI DI RESISTENZA AL DOLORE. Leggo l’incipit e mi sembra di entrare in un paesaggio noto.
Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l'ostetrica dice "non urli, non è mica la prima". Imparano a cantare piangendo, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa.”[2]
Sorpresa dalla forza dell’incipit e rassicurata dal nome dell’autrice: Concita De  Gregorio,  leggo il libro che mi permetto di consigliare.
MALAMORE  Esercizi di resistenza al dolore.
Malamore è un saggio pubblicato nel 2008 e narra la vita di donne che sopportano , resistono alla violenza e alle prevaricazioni degli uomini senza trovare il coraggio di protestare e  liberarsi da vincoli affettivi opprimenti. Donne che si comportano  come se il fatto di trattenere accanto a sé un partner  sia più importante del proprio benessere, della felicità e della dignità personale.
Nel libro le protagoniste convivono con una segreta e quotidiana penitenza; sono donne che non hanno “ le chiavi per forare l’ottusità del dolore[3] e vi resistono con gli approcci consueti della quotidianità familiare.
Donne che sminuiscono il proprio valore e magnificano le “ attrattive”  del compagno; alcune di loro riescono a trasformare il dolore in forza, altre muoiono un poco alla volta immerse nel sonno della compiacenza coniugale; un torpore affettivo che fa loro dire:- Va tutto bene, riuscirò  a sopportare . Donne che amano troppo  direbbe Robin Norwood[4]; donne dipendenti da un uomo che, mentre sperano che lui cambi, di fatto si coinvolgono sempre più profondamente in un meccanismo di assuefazione, forti della convinzione di avere le spalle  larghe da poter sopportare le fatiche che la vita di coppia riserva loro. Fatiche  che spesso  si estendono anche  alla vita familiare, dove la compagna o moglie, nel ruolo di madre si grava anche con le zavorre dei figli .
Sono a disagio, scrive  l’autrice, sul treno -intercity Roma-Milano, (...)perché la madre di questo ventenne con le cuffie dell'i-pod seduto a gambe larghe accanto a me sta in piedi fuori per cinque ore ininterrotte - lei, la madre, in piedi -, non si scambiano una parola per tutto il viaggio(...)
Sono a disagio quando mi dicono, le donne soprattutto: quattro figli e tutti maschi? Complimenti. Complimenti per il genere, non per il numero, è chiaro.
(...)Sono a disagio quando la maestra di ritorno dal campo scuola convoca i genitori per il resoconto del viaggio e di passaggio dice che i maschi, certo, dovrebbero avere cura di tirare l'acqua dopo essere stati in bagno perché le femmine lo fanno e insomma, via, non è difficile (...)
Concita De Gregorio propone le storie di ragazze straniere e italiane, donne di successo e comuni lavoratrici, artiste, attrici e protagoniste di fiabe. Dalle pagine si affacciano Eva Kant, Artemisia Gentileschi, Dora Maar, Caterina da Siena, Barbablù, la topolina Rateta e Dalia, la bambina che da piccola veniva chiamata Regina(chi, a dodici anni, la comprò non era re e mai la condusse a palazzo).
Lasciando la lettura delle storie a chi vorrà avvicinarle, la vicenda di Dalia mi riconduce al mondo della fiaba e la figura della “piccola fiammiferaia”[5] si affianca a quella della giovane. ma quest’ultima, a differenza della protagonista della fiaba , che  accende tutti i fiammiferi esaurendo così le sue risorse  fisiche  e psichiche,  li conserva. Non avendo legna da ardere lei sa che  i fiammiferi, non potrebbero soddisfare  il suo bisogno di calore, quindi cura e difende la flebile fiamma degli ultimi fiammiferi per tornare a casa mortificata nel corpo e nello  spirito.
Non verrà un re lo so. Per fortuna non verrà più nessuno. Mi chiamo Dalia, come un fiore. Ho ventitré anni, sono vecchia. Non avrò marito, non avrò una macchina che viene a prendermi per portarmi a palazzo. Non ricordo più niente di prima. Non so. Non ho memoria di nulla. Non ho sorelle, solo maschi. Non ci sarà nessuno che verrà a portarli via. È una fortuna non avere figlie femminine. Le femmine sono una ricchezza, ma per poco. Vivono solo dodici anni.”[6]
La De Gregorio va al di là della semplice descrizione di storie e chiude il libro con l’esortazione a liberarsi  dalle relazioni violente a cui, volendo, si potrebbe e dovrebbe sfuggire. Una volontà che, come leggiamo nella pagina del diario di Sylvia Plath,  raramente trova la forza di trasformarsi in risolutezza.  

Arriva il momento in cui i tuoi sbocchi sono otturati, come con della cera. Sei seduta in camera tua e senti nel corpo un dolore pungente che ti stringe la gola e si consolida pericolosamente nei piccoli sacchi lacrimali dietro gli occhi. Una parola, un gesto, e tutto quel che ti tieni dentro -risentimenti imputriditi, gelosie in cancrena, desideri superflui inappagati - scoppierà in rabbiose lacrime impo­tenti, in singhiozzi imbarazzati e piagnistei senza un preciso destinatario. Non ci saranno braccia ad avvolgerti, nessuna voce ti dirà: « Su, su. Fatti un bel sonno e non pensarci». (...) Ti serve uno sbocco e sono tutti ermeticamente chiusi. Vivi giorno e notte nella buia, ristretta visione che ti sei costruita con le tue mani. (...) E così scendi di sotto e ti siedi al pianoforte. I bambini sono usciti; la casa è tranquilla. Il suono degli accordi limpidi sulla tastiera e cominci a provare sollievo mentre ti liberi di parte del gran peso che hai sulle spalle. Rapidi passi risalgono dal seminterrato. Un viso angoloso e seccato vicino alla ringhiera. «Sylvia, per favore, non suonare il pianoforte nel pomeriggio, durante le ore di ufficio. Rimbomba direttamente di sotto». Paralizzata, stordita, marchiata dalla sua voce gelida, menti: «Mi dispiace. Non immaginavo che si sentisse».[7]



[1] Rupi Kaur
[2] Concita De Gregorio, MALAMORE , Einaudi super ET, 2017 Milano pag 3
[3] Alberto Rollo.
[4]Robin Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli
 [5] Hans Christian Andersen, “ La piccola Fiammiferaia.
[6] Concita De Gregorio, MALAMORE , Einaudi super ET, 2017 Milano  
  Sylvia Plath Diari, Adelphi


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