... e... non vissero felici e contente
Loretta Buda
Riversarmi
dal ventre di mia madre è stato il primo atto di sparizione, imparare a
rimpicciolire per una famiglia che vorrebbe invisibili le figlie è stato il
secondo(...) [1]
E’
martedì pomeriggio, sono alla Ceccarelli seduta accanto al tavolo delle novità.
Prendo distrattamente in mano un libro la cui copertina spicca vivacemente sulla
“debolezza cromatica” delle pubblicazioni che lo affiancano. Mi colpisce l’immagine
della rosa rossa che, sfrangiandosi, sparge frammenti di corolla su uno sfondo nero; ad attirare la mia attenzione però è il sottotitolo: ESERCIZI
DI RESISTENZA AL DOLORE. Leggo l’incipit e mi sembra di entrare in un
paesaggio noto.
“Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia
ma non si bruciano. Respirano forte quando l'ostetrica dice "non urli, non
è mica la prima". Imparano a cantare piangendo, a sciare con le ossa
rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei
mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno
più confidenza col dolore. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare
da esser quasi amico. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie,
lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il
dolore in forza. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo
sa.”[2]
Sorpresa
dalla forza dell’incipit e rassicurata dal nome dell’autrice: Concita De Gregorio,
leggo il libro che mi permetto di consigliare.
MALAMORE
Esercizi di resistenza al dolore.
Malamore
è un saggio pubblicato nel 2008 e narra la vita di donne che sopportano , resistono
alla violenza e alle prevaricazioni degli uomini senza trovare il coraggio di
protestare e liberarsi da vincoli
affettivi opprimenti. Donne che si comportano come se il fatto di trattenere
accanto a sé un partner sia più
importante del proprio benessere, della felicità e della dignità personale.
Nel
libro le protagoniste convivono con una
segreta e quotidiana penitenza; sono donne che non hanno “ le chiavi per forare l’ottusità del dolore”[3]
e vi resistono con gli approcci consueti della quotidianità familiare.
Donne
che sminuiscono il proprio valore e magnificano le “ attrattive” del compagno; alcune di loro riescono a
trasformare il dolore in forza, altre muoiono un poco alla volta immerse nel
sonno della compiacenza coniugale; un torpore affettivo che fa loro dire:- Va
tutto bene, riuscirò a sopportare .
Donne che amano troppo direbbe Robin Norwood[4];
donne dipendenti da un uomo che, mentre sperano che lui cambi, di fatto si
coinvolgono sempre più profondamente in un meccanismo di assuefazione, forti
della convinzione di avere le spalle larghe
da poter sopportare le fatiche che la vita di coppia riserva loro. Fatiche che spesso
si estendono anche alla vita
familiare, dove la compagna o moglie, nel ruolo di madre si grava anche con le
zavorre dei figli .
Sono a disagio, scrive
l’autrice, sul treno -intercity
Roma-Milano, (...)perché la madre di questo ventenne con le cuffie dell'i-pod
seduto a gambe larghe accanto a me sta in piedi fuori per cinque ore
ininterrotte - lei, la madre, in piedi -, non si scambiano una parola per tutto
il viaggio(...)
Sono a disagio quando mi dicono, le donne soprattutto:
quattro figli e tutti maschi? Complimenti. Complimenti per il genere, non per
il numero, è chiaro.
(...)Sono a disagio quando la
maestra di ritorno dal campo scuola convoca i genitori per il resoconto del
viaggio e di passaggio dice che i maschi,
certo, dovrebbero avere cura di tirare
l'acqua dopo essere stati in bagno perché le femmine lo fanno e insomma, via, non è difficile (...)
Concita De Gregorio propone le storie di
ragazze straniere e italiane, donne di successo e comuni lavoratrici, artiste,
attrici e protagoniste di fiabe. Dalle pagine si affacciano Eva Kant, Artemisia
Gentileschi, Dora Maar, Caterina da Siena, Barbablù, la topolina Rateta e Dalia,
la bambina che da piccola veniva chiamata Regina(chi, a dodici anni, la comprò
non era re e mai la condusse a palazzo).
Lasciando la lettura delle storie a chi
vorrà avvicinarle, la vicenda di Dalia mi riconduce al mondo della fiaba e la
figura della “piccola fiammiferaia”[5] si
affianca a quella della giovane. ma quest’ultima, a differenza della
protagonista della fiaba , che accende
tutti i fiammiferi esaurendo così le sue risorse fisiche
e psichiche, li conserva. Non
avendo legna da ardere lei sa che i
fiammiferi, non potrebbero soddisfare il
suo bisogno di calore, quindi cura e difende la flebile fiamma degli ultimi
fiammiferi per tornare a casa mortificata nel corpo e nello spirito.
Non
verrà un re lo so. Per fortuna non verrà più nessuno. Mi chiamo Dalia, come un
fiore. Ho ventitré anni, sono vecchia. Non avrò marito, non avrò una macchina
che viene a prendermi per portarmi a palazzo. Non ricordo più niente di prima.
Non so. Non ho memoria di nulla. Non ho sorelle, solo maschi. Non ci sarà
nessuno che verrà a portarli via. È una fortuna non avere figlie femminine.
Le femmine sono una ricchezza, ma per poco. Vivono solo dodici anni.”[6]
La De
Gregorio va al di là della semplice descrizione di storie e chiude il libro con
l’esortazione a liberarsi dalle relazioni
violente a cui, volendo, si potrebbe e dovrebbe sfuggire. Una volontà che, come
leggiamo nella pagina del diario di Sylvia Plath, raramente trova la forza di trasformarsi in risolutezza.
Arriva il momento in cui i tuoi sbocchi sono otturati, come con della cera. Sei seduta in camera tua e
senti nel corpo un dolore pungente che ti
stringe la gola e si consolida pericolosamente nei piccoli sacchi lacrimali
dietro gli occhi. Una parola, un gesto, e tutto quel che ti tieni dentro -risentimenti imputriditi, gelosie in cancrena,
desideri superflui inappagati - scoppierà in rabbiose lacrime impotenti,
in singhiozzi imbarazzati e piagnistei senza un preciso destinatario. Non ci saranno braccia ad avvolgerti, nessuna voce ti dirà: « Su, su. Fatti un bel sonno e
non pensarci». (...) Ti serve uno sbocco e sono tutti ermeticamente
chiusi. Vivi giorno e notte nella buia, ristretta visione che ti sei
costruita con le tue mani. (...) E così
scendi di sotto e ti siedi al pianoforte. I
bambini sono usciti; la casa è tranquilla. Il suono degli accordi limpidi sulla tastiera e cominci a provare
sollievo mentre ti liberi di parte del gran peso che hai sulle spalle. Rapidi passi
risalgono dal seminterrato. Un viso angoloso e seccato vicino alla ringhiera. «Sylvia, per favore, non suonare il pianoforte nel
pomeriggio, durante le ore di ufficio. Rimbomba
direttamente di sotto». Paralizzata, stordita, marchiata dalla sua voce gelida, menti: «Mi dispiace. Non immaginavo che si sentisse».[7]
[1] Rupi
Kaur
[2] Concita
De Gregorio, MALAMORE , Einaudi super ET, 2017 Milano pag 3
[3] Alberto
Rollo.
[4]Robin Norwood,
Donne
che amano troppo,
Feltrinelli
[5] Hans Christian
Andersen, “ La piccola Fiammiferaia.
[6] Concita
De Gregorio, MALAMORE , Einaudi super ET, 2017 Milano
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