10 Febbraio 2017
“Di tutto ciò che siamo, di tutto ciò che fummo,
restano le parole che abbiamo detto,
le parole che tu ora scrivi,
scrittore.”[1]
Viviamo quel tempo che Franco
Arminio definisce “dell’agonia ciarliera» , dove fretta e smemoratezza procedono appaiate trascinando nella loro
corsa ricordi , vissuti e parole. Soprattutto per noi, di PAROLEFATTEAMANO, è
risaputo che per restare, per essere
ricordati ci vogliono le parole; quelle
parole che narrano , che “continuano a farla essere la vita e la testimoniano”. [2]
Quindi, nel
giorno dedicato alla memoria dell’esodo
istriano, fiumano e dalmata e ai
delitti perpetrati in quelle terre ci affidiamo alle parole di
Simone Cristicchi , artista poliedrico, che nel libro “Magazzino 18” racconta
la storia di quelle popolazioni che hanno subito pesantemente la sconfitta
dell’Italia alla fine della
seconda guerra mondiale .
L.B.
Quando i miei genitori, con molti altri
furono costretti a lasciare Umago e tutto ciò che avevano, dopo tante peripezie
approdarono in uno dei tanti «borghi costruiti per gli esuli» dove la gente
delle più svariate località dell’lstria si ritrovava a vivere insieme, sopra,
sotto, di fianco, di fronte.
Da alcuni vicini, venuti via da
Capodistria, ho saputo che le donne di casa si portarono via
anche i bulbi di alcune piante del loro
giardino, che evidentemente avevano curato con amore e da cui era stato
difficile separarsi. Misero in un sacchetto di tela i bulbi dei gigli, riuscirono
a passare il confine (il «blocco» si chiamava) e questi bulbi cominciarono la
via crucis dei campi profughi fino a quando furono definitivamente trapiantati
nei piccoli giardini delle case per gli esuli.(...)
In paese ci sono tornata, sì, certo,
almeno a mettere un fiore sulla tomba dei nonni, ma
nella casa dove sono nata, a
Grisignana, non sono mai più riuscita a rimetterci piede, mi fa troppo male. L’ ho vista da lontano,
qualche anno fa. Era mezza diroccata, mi si è stretto il cuore. Non era un palazzo, no davvero,
eravamo semplici contadini, ma era il nostro
focolare. Non ne ho mai più avuto uno.
Dodici anni da profuga in una baracca
di legno sul Carso triestino, studi in collegio
interrotti alla terza media per
"dare una mano ai miei". Non ce l’avremmo fatta a uscire da quelle baracche altrimenti.
Quando domani in viaggio arriverai sul
mio paese,
carezzami ti prego il campanile...
(Testimonianza di Carla Reschia, Trieste, racconto del rientro dopo la guerra, dolore sconforto, paura di
quello che si può trovare)
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